La recensione di Seoul Vibe, su Netflix dal 26 agosto
In una Seoul colorata, modaiola ed energica che si sta preparando ad ospitare le Olimpiadi del 1988, un gruppo sgangherato di giovani piloti e meccanici con la fedina penale sporca agisce sotto copertura per conto di un procuratore con il compito di smascherare un enorme giro di riciclaggio. C’entrano il governo, i militari, ci sono in ballo opere d’arte ed enormi quantità di soldi ma non è mai davvero chiaro quale sia l’intrigo di
Seoul Vibe. Per quanto l’aspetto politico sia la miccia che accende la storia, motivandola (si tratta appunto di un’indagine) questo rimane sempre sullo sfondo, una scusa per mostrare l’attitudine dei protagonisti a darsi ad acrobazie e intervalli più o meno comici o avventurosi.
Diretto da Hyun-Sung Moon, il film infatti sembra concentrarsi più di tutto sull’essere il più stiloso possibile. Per quanto l’occhio venga appagato dalla messa in scena perfezionista, dagli inseguimenti a suon di musica pop (ovviamente i cult anni Ottanta) e dall’ironia dei personaggi, Seoul Vibe è evidentemente molto più compiaciuto del suo apparire che della sua sostanza: esplosivo nelle singole scene, in certi frammenti di dialogo, in certe sequenze dove i motori delle auto rombano lungo strade tirate a lucido - ma al limite dell’estenuante nel suo sviluppo di trama, ripetitivo e decisamente fuori scala rispetto alla funzionalità (quasi due ore e mezza per girare intorno ad una dinamica già abbastanza vaga).
Seoul Vibe non cela di certo la sua natura di
divertissement: come l’aspetto politico è una scusa per un po’ di azione, allo stesso modo gli anni Ottanta sono una scusa per uno studio estetico, per distrarre l’attenzione dalla storia e riversarla su look, oggetti, capigliature ed accessori. Niente di male, se non che alla lunga questo “inganno” non regge: laddove ci sarebbe bisogno di sempre maggiore carica, esagerazione e pure un po’ di follia dinamica,
Seoul Vibe tiene il freno a mano tirato, ripetendo più che altro ciò che ha già mostrato di saper fare. Insomma per quanto
Hyun-Sung Moon si dimostri capace di reggere il peso di grandi sequenze, quello che sembra mancare è uno stile che non sia solo evocazione generica di un luogo e un tempo (appunto, Seoul negli anni Ottanta) ma un’evocazione viva, pulsante. Se non personale - non siamo di certo nel terreno del film d’autore - quantomeno personalizzata, particolare. Intrigante.
Nel complesso Seoul Vibe è sicuramente di buona fattura, eppure questo suo generalismo compiaciuto, per quanto divertente e ben impacchettato, sembra più che altro l’ennesimo esempio di “film algoritmo”, dettato dalle preferenze degli utenti Netflix (che orientano le produzioni) più che dalla voglia di raccontare una certa storia.
Siete d’accordo con la nostra recensione di Seoul Vite? Scrivetelo nei commenti!
Vi ricordiamo che BadTaste è anche su Twitch!