Sempre più bello, la recensione
Arrivato al terzo film la serie chiude confermandosi cinema queer a tutti gli effetti, che racconta e mette in scena modelli e stili alternativi
“Una specie di strana famiglia morbosa” viene detto in Sempre più bello a un certo punto, per descrivere il rapporto che (fin dal primo film) esiste tra i tre personaggi principali, che vivono insieme e sembrano non avere altre famiglie. Scopriamo in questo epilogo invece che la protagonista un parente superstite ce l’ha, una nonna (con cammeo illustre), ma ha scelto di non frequentarla e sta invece con la “famiglia morbosa” che qui per un breve periodo, in un film in cui si avvicendano tantissime situazioni senza particolari archi narrativi, si arricchisce di un neonato per qualche giorno. Le famiglie di Sempre più bello non sono mai quelle che ci aspettiamo, non rispondono a quelle canoniche, né rispettano i soliti ruoli. Addirittura anche una famiglia più tradizionale a un certo punto stupirà il pubblico proprio perché non risponde a quello che la stessa figlia si aspetta.
Certo, è impossibile non notare che in tre film gli attori principali non sono migliorati per niente sul fronte della recitazione, nel migliore dei casi “spontanea” e mai interpretazione di un personaggio, né in tre film è stato possibile trovare una maniera di montare decentemente le musiche, né ancora i film si sono strutturati. Perché se è vero che ci sono trilogie molto coerenti e ci sono trilogie che invece tra il primo e l’ultimo film cambiano tono, generi e obiettivi, è anche vero che troppe cose sono affidate “ai sentimenti”, come la conversione finale di un personaggio descritto come riottoso e spigoloso, che arriva perché sì, nel nome dell’amore.