Selva Tragica, la recensione | Venezia 77

La recensione del film Selva Tragica, presentato nella sezione Orizzonti alla 77. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

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La regista messicana Yulene Olaizola firma con Selva Tragica, presentato nella sezione Orizzonti della 77 Mostra del Cinema di Venezia, un film affascinante ma purtroppo con troppi difetti per riuscire a convincere o andare oltre la rappresentazione metaforica poco incisiva o rilevante di mitologie e tradizioni lontane.

Gli eventi sono ambientati nel 1920, al confine tra Messico e Belize dove si trova un territorio all'insegna della mancanza di regole e della violenza. Un gruppo di messicani che raccolgono illegalmente gomma dagli alberi si imbatte per caso in Agnes (Indira Rubie Andrewin), una giovane in fuga. L'interazione tra gli uomini, che devono inoltre tenersi distanti dagli inglesi che hanno il controllo delle attività, scatena gli istinti primordiali delle persone coinvolte, mentre nella giungla sembra essersi risvegliata Xtabay, una misteriosa creatura che assiste a quanto accade rimanendo apparentemente nell'ombra.

La splendida ambientazione della storia contribuisce in maniera significativa a creare un'atmosfera misteriosa che ben rispecchia la forza e i miti che contraddistinguono la giungla, tuttavia il problema principale di Selva Tragica è la sceneggiatura che, dopo una prima parte tesa e intensa all'insegna del tentativo di intrecciare suggestioni e realtà, portando così il racconto su un territorio insidioso che il cast, e in parte la stessa regista, non riesce a gestire. La figura femminile al centro del racconto, di cui non conosciamo il passato e le motivazioni, si allontana progressivamente dalla sua umanità e inizia a fondersi con la natura che la circonda e con le sue presenze invisibili, tuttavia questa progressiva trasformazione non viene costruita in modo solido dal film che scivola rapidamente in un piano metaforico poco riuscito. Lo script firmato dalla regista in collaborazione con Ruben Imaz non riesce inoltre a dare vita al senso di minaccia che ci si potrebbe aspettare da una lotta per la sopravvivenza immersa in un luogo così estremo e nemmeno gli aspetti sociali, legati ai lavoratori clandestini, vengono sviluppati in modo adeguato, rendendo la morte di alcuni di loro un evento quasi irrilevante e totalmente incapace di suscitare emozioni.

La protagonista Indira Rubie Andrewin possiede sicuramente un volto magnetico e una presenza scenica di grande impatto, tuttavia il suo personaggio appare privo di qualsiasi sfumatura, passando dallo stereotipo della giovane innocente vittima di uomini malvagi a quella della donna che, dopo essere entrata in contatto con la parte più selvaggia della sua anima, si fonde totalmente in una natura di cui diventa parte integrante, fisicamente e spiritualmente.
Il cast non riesce a sollevare i personaggi dagli stereotipi che contraddistinguono il lungometraggio, mentre la fotografia firmata da Sofia Oggioni e un montaggio piuttosto serrato provano a innalzarne il livello, riuscendo in parte a rendere la visione scorrevole e comunque non priva di interesse.
Yulene Olaizola fatica inoltre a rendere la distesa verde senza apparente fine un pericolo per chi si sposta tra le fronde, affidandosi all'espediente dell'entrata in scena di alcuni animali selvaggi per aumentare la tensione, scelta che risulta purtroppo quasi ridicola.
Il difetto peggiore di Selva Tragica è però quello di non saper equilibrare gli elementi thriller con quelli mitologici, perdendo l'occasione di offrire un ritratto incisivo e coinvolgente di un passato e di tradizioni poco conosciute e distanti.

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