Sei nell'anima, la recensione

Come tutte le produzioni peggiori, Sei nell'anima prende una storia potenzialmente unica e la piega fino a farla somigliare a tutte le altre

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Sei nell'anima, il film sulla vita e la carriera di Gianna Nannini disponibile su Netflix dal 2 maggio

Il cinema peggiore è quello in cui le cose accadono di colpo, perché nessuno si è preso la briga di costruirle, prepararle o anche solo di arrivarci per gradi, ma a tutti interessa un apice emotivo. Così i personaggi provano sentimenti intensi dal nulla, le situazioni bloccate si sbloccano nel giro di pochi secondi, decisioni apodittiche vengono prese con due scambi di battute e ci si affida più alla convenzione (una padre che guarda una figlia con gli occhi lucidi, che le confessa qualcosa sul letto di morte o che severo la ammonisce) che a un lavoro originale o personale sulla narrazione, convinti che il pubblico riconoscerà in quello snodo, proprio la sua convenzione e quindi capirà che c’è da provare dei sentimenti.

È quello che avviene nelle fiction, in cui i personaggi hanno gli occhi lucidi facili. È quello che avviene nelle pessime commedie, in cui gli intrecci invece di snodarsi con abilità si sciolgono subitaneamente. Ed è quello che avviene in Sei nell’anima, biopic nazionalpopolare a trazione generalista che passa sopra tutto ciò che è moderno per ritrarre Gianna Nannini come un’outsider di successo con problemi di relazione, ovvero l’immagine stereotipica della mitologia del rock. Almeno fino a che sostiene lei di non averne avuti più (tutto è tratto dalla sua autobiografia e ampiamente approvato da lei), momento in cui il film finisce. Il minutaggio dice “film”, la diluizione dice “serie”, la qualità e il tono dicono “fiction”.

Ma sia chiaro: non è un incidente se Sei nell’anima è brutto. È stato voluto brutto. La sua bruttezza è cercata, è scientifica adesione al minimo comun denominatore della messa in scena, per l’appunto quella della televisione senza impegno, per comunicare facilità di accesso a un pubblico che Netflix vuole sempre più largo. È la vecchia televisione che si finge nuovo cinema, pura restaurazione che plasma la vita di una cantante alle parabole solite, la legge nella maniera più banale e scontata (una ribelle che poi capisce che certe ribellioni non avevano senso e altre sì), un genio che ha messo la sua vita nelle canzoni senza sforzo ma per ispirazione. E anche una performance davvero buona, davvero sorprendente, come quella di Letizia Toni nella parte principale può niente di fronte alla macchina che appiattisce tutto di Cinzia TH Torrini.

È superfluo dire che non si scopre nulla su Gianna Nannini da questo film che non sia già nelle interviste (incluso che le manca una parte di un paio di dita e ha avuto un momento di svolta, di problemi mentali che le hanno fatto riconsiderare come viveva) e cosa ancora più grave non si scopre nulla sul mondo in cui si è mossa (la scena musicale underground e mainstream italiana anni ‘70 e ‘80). Non si scopre niente sulla persona (così fasulla e artefatta è la sua psicologia che è impossibile pensare non sia frutto di una scrittura romanzesca), non si scopre niente su di noi, la nostra relazione italiana al successo, alla trasgressione del rock (o almeno quella che possiamo permetterci) e alla costruzione di idoli commerciali su presupposti artistici. Sei nell’anima fa finta che tutti questi spunti non esistano, trascura anche quelli sessuali (una lesbica o bisessuale, in Italia, negli anni ‘70!) per parlare di ciò che appartiene in potenza a qualsiasi storia e non è invece unico nella storia di Gianna Nannini: gli affetti familiari, l’amore, il desiderio di realizzarsi.

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