Sei fratelli, la recensione
Il cinema di interazioni, personaggi e dialoghi di Simone Godano ha una battuta d'arresto con Sei fratelli e regredisce verso i film italiani più banali
La recensione di Sei fratelli, il film di Simone Godano con RIccardo Scamarcio, Adriano Giannini e Linda Caridi al cinema dal 1° maggio
È la storia dei sei fratelli del titolo, cinque più una che non sapevano di avere, tutti di diversi matrimoni, riuniti dalla morte del padre, da un’eredità assurda da dividere (un allevamento di ostriche in perdita) e divisi da inimicizie, fastidi, preferenze e caratteri agli antipodi. È il classico film che vive delle interazioni corali, del clima che si crea tra i personaggi in cui il pubblico vuole (e deve) essere coinvolto come fosse parte del gruppo da sempre. I pochi giorni che i fratelli passano in una specie di terra di nessuno, lontano da tutto, dalle loro vite, dai loro problemi e in un certo senso dalle identità che hanno maturato per sé, li fa un po’ regredire e un po’ li svela, cementando rapporti e creando ricordi.
Cominciano le musichette dolci che entrano moleste nelle scene a sottolinearne il carattere sentimentale o che irrompono in un dialogo proprio nel momento in cui dobbiamo capire che sta arrivando una confessione intima. Cominciano le scene in cui i personaggi dicono a parole quello che sentono, il tipico momento che vuole essere molto vero ma ottiene l’opposto, cioè appare artificioso. Cominciano i passaggi obbligati come la partita a laser game che sostituisce la più abusata partitella a calcio per cementare l’unione dei personaggi, far cadere le loro difese e svelarne l’unione. Tutto fino a uno spargimento delle ceneri con piccola pazzia annessa che è l’opposto dello spontaneo. Comincia insomma a somigliare alla finzione più banale invece che alla vita vera, senza nemmeno quella dedizione e quella maestria verso le convenzioni drammaturgiche che poteva renderlo un “classico”, un film che le regole le rispetta tutte, non stupisce nessuno ma è fatto a regola d’arte.
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