Seberg, la recensione | Venezia 76
Ritratto scolastico privo di reale mordente, il biopic Seberg trova la sua ragion d'essere nella fresca e vibrante performance di Kristen Stewart
Seppur con svariate licenze storiche e l'introduzione non sempre felice di personaggi di fantasia, su tutti il costante "guardiano" dell'FBI Jack Solomon (Jack O' Connell), Seberg offre al pubblico la possibilità di gettare uno sguardo su una vera e propria vittima del sistema americano, tanto filmico quanto politico: alla Jean che vorrebbe mettersi alla prova con ruoli diversi si affianca l'attivista politica che socializza - fin troppo - con il movimento del Black Power, atto a contrastare con ogni mezzo il suprematismo bianco. La sorveglianza illegale cui l'attrice viene sottoposta - solo in un primo momento a propria insaputa - innesca una parabola discendente che la mette in crisi come donna e come artista.
L'operazione di Andrews è, tutto sommato, diligente ma priva di reale mordente che prescinda dalla tragicità obiettiva della vicenda umana di Jean; i passaggi chiave del suo sventurato percorso non sono motivati con reale profondità, e Seberg va avanti per assiomi di cui però ci manca la radice: la solidarietà della protagonista nei confronti della minoranza di colore avrebbe probabilmente meritato una trattazione più sensibile, a scapito magari di qualche scena di troppo dedicata al contesto familiare di Solomon e colleghi, appiattito in un manicheismo troppo smaccato per meritare l'ampio spazio riservatogli all'interno di un film relativamente breve.A dispetto dei molti detrattori che tuttora conserva, è proprio Stewart a decretare la fondamentale ragion d'essere di un film come questo; la vibrante freschezza della sua interpretazione rende immediata l'identificazione tra interprete e personaggio, anche a causa del facile parallelo tra i rispettivi vissuti, entrambi assoggettati a un cannibalismo gossipparo estenuante e ingiusto. Quanto, del privato di un artista, debba essere dato in pasto al pubblico è un argomento dibattuto ed egregiamente affrontato, in tempi recenti, da La mia vita con John F. Donovan: prendendo spunto dall'atrocità del reale, Seberg ne dà una visione più politica, claustrofobica e disperante.