Searching, la recensione

Ambientato sul desktop di un computer Searching è la declinazione più ordinaria dello screencasting, quella che replica più che può il video

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Searching non è un film su un padre che cerca una figlia misteriosamente scomparsa una notte. È un film sul proprietario di un computer e utente di internet che scava nelle applicazioni e sfoglia file e tramite un misto di videochiamate, zoom su immagini, visualizzazioni di video online e ricerche di informazioni su Google viene a capo di cosa sia accaduto. Tutto girato in screencasting (quella modalità per quale ciò che vediamo è il desktop di un computer e ogni azione è là dentro), è un thriller “da camera” ambientato in un computer, cioè chiuso in un ambiente e confinato temporalmente, pieno di limitazioni e per questo capace di accendere la fantasia di chi lo dirige.

La trama in realtà è abbastanza canonica (eccezion fatta per una buon finale a sorpresa): padre e figlia vivono da anni senza la madre, deceduta in un bel montaggio iniziale fatto di azioni al computer che conducono all’evidenza della morte, quando l’appuntamento sul calendario “Mamma esce dall’ospedale” viene cestinato e si passa alla preparazione di un documento Word di quelli con foto del deceduto, date e “in Loving Memory” da stampare per il funerale. Quando di colpo la figlia comincia a smettere di rispondere ai messaggi e non torna più a casa inizia una ricerca disperata accedendo al suo computer (in una catena divertente di “Hai dimenticato la password?”), alla sua rubrica, alla sua pagina Facebook e poi assieme alla polizia alle immagini delle videocamere di sicurezza sparse per la città. Sembra sia fuggita, forse è stata rapita, probabilmente è morta, ma il padre non vuole arrendersi e continua a scavare.

Timur Bekmambetov aveva distribuito solo pochi mesi fa Profile, film da lui diretto anch’esso in screencasting sulla storia vera di una giornalista che si fa reclutare dai guerriglieri dell’ISIS per smascherarli e rischia la vita via internet, ora produce questo. Profile era una storia sui rischi della rete, questa una di speranza, internet come strumento risolutore, il miglior amico dell’uomo. Entrambi i film sfruttano uno stile di messa in scena nato online e fiorito solo poi al cinema (anche l’horror Unfriended era fatto così) ma se Bekmambetov dimostrava di saper tradurre bene le regole del cinema in un computer, invece Searching è più ordinario.

Quel che di più pigro si può fare in questi casi infatti è barare e usare moltissimo il video. In tutto Searching vediamo il protagonista dialogare con qualcuno via FaceTime o Skype, addirittura anche quando telefona da in mezzo a un bosco di notte e non ha niente da mostrare a nessuno. Nelle finestre contenute dallo schermo vediamo lui e il suo interlocutore in un campo controcampo tutto interno al fotogramma, che non è molto. Specie considerato come abbiamo imparato che lo screencasting può creare nuove associazioni e lavorare in modi più raffinati sullo sguardo dello spettatore.

Davvero questo è tutto quello che Aneesh Chaganty riesce ad inventarsi su una trama così convenzionale? Una serie di videoconversazioni e qualche pagina internet in cui leggere informazioni?

Continua a leggere su BadTaste