Se solo fossi un orso, la recensione
Con tutto un altro tono e altre finalità Se solo fossi un orso prende il cinema sociale, gli leva il documentarismo e scopre che c'è un mondo
La recensione di Se solo fossi un orso, il film presentato a Un Certain Regard di Cannes e in sala dal 14 marzo
Se solo fossi un orso (traduzione stranamente modificata dell’originale If Only I Could Hibernate) racconta esattamente il tipo di storia che si potrebbe trovare nei film dei fratelli, una in cui dei personaggi si trovano in una situazione di indigenza che a cascata crea problemi. Al centro c’è una famiglia di 4 figli, il maggiore dei quali è un prodigio della fisica e la scuola è convinta che possa far bene ai campionati nazionali, purtroppo la morte del padre li ha lasciati senza mezzi di sostentamento e con una madre incapace di lavorare che passa le giornate ubriaca. Sarà proprio il maggiore a cercare di tenere in piedi tutto, rifiutandosi di portare la famiglia in campagna, rimanendo in città con i fratelli per avere un domani migliore ma affrontando un presente difficile e senza soldi.
E anche il mondo di Ulaanbaatar, la capitale della Mongolia, in cui si muovono non è solo periferia disperata e scuole scalcinate, ma anche ospedali pubblici funzionanti, ragazzi poveri che lavorano per comprare belle scarpe, vicini caritatevoli e le yurte (le capanne tradizionali, la casa più economica possibile) sono ambienti colorati e accoglienti. Questo non nega i problemi e non alleggerisce il dramma, ma contestualizza il racconto spostando la concentrazione dalla società (che non è più quindi la principale imputata) ai singoli, la cui determinazione e la cui ricerca della felicità, diventa l’asse portante della narrazione, e un obiettivo difficile ma raggiungibile.
Questo fa un film con dei risvolti più ideali che reali ma per Zoljargal Puevdash è chiaramente molto più importante quanto il suo protagonista debba maturare e cosa debba capire per riuscire davvero nell’impresa di provare a costruire un futuro migliore, quali possano essere i suoi padri surrogati e cosa abbia da imparare dal mondo intorno a lui, piuttosto che la descrizione di tutto quello che non va (che pure non manca, sia chiaro). Questo cambia completamente il tono e forse il genere del film. Non è più l’osservazione semidocumentaristica di un mondo dalla quale i sentimenti traspirano senza che nessuno li esprima direttamente, ma un’avventura con un obiettivo, la sfida di un ragazzo dotato, intelligente e determinato. Un finale con un sorriso da Gioconda è forse il migliore possibile.