Se la Strada Potesse Parlare, la recensione
Soffice, morbido ed intimo, Se La Strada Potesse Parlare tenta di trasformare l'indignazione in violazione dell'intimità
Il film vero in realtà parte un po’ dopo il vero inizio, parte all’annuncio della gravidanza, quando una storia d’amore tra due amici d’infanzia slitta in un grande vincolo suggellato come in un melò degli anni ‘50 dall’amplesso in una baracca.
Per l’annuncio della gravidanza Jenkins crea uno dei momenti migliori della sua carriera sterzando l’intero film in quella direzione, come se l’annuncio cambiasse il mondo intorno a tutti. È un momento soffice e morbido, con un brano jazz di sottofondo che fa scopa con le voci degli attori, ferme un passo prima del flautato. È la morbidezza della famiglia in una scena che ha il rassicurante comfort di un vecchio divano, diretta con calma ma senza limitarne il potenziale emotivo.
Come sempre avviene è la preparazione della violazione, la creazione di un futuro, un domani e una vita da vivere che possono essere distrutte. Eppure questo tono soffice, sempre attutito da un jazz onnipresente, sempre soffice, e sempre aiutato da una fotografia piena di chiaroscuri e da una recitazione cauta, sono in totale controtendenza con i racconti nervosi delle famiglie afroamericane vessate dall’uomo bianco cui siamo abituati. Jenkins limita l’ingiustizia quasi fuori campo, rifiuta le scene di clamorosa violenza e cerca invece di ritrarre ciò che viene negato al protagonista: il mondo fuori, la vita da vivere.
Si scopre così che la cronaca dell’indignazione fatta con questa dolcezza, senza la rabbia ma anzi con rassegnata umanità è solo un compiangersi.