Scream VI, la recensione

Proseguendo sulla strada del precedente Scream VI ne tradisce tutti i presupposti finendo per essere il più scialbo tra i sequel

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Scream VI, al cinema dal 9 marzo

La stessa identica squadra che aveva creato uno dei migliori sequel possibili, cioè il quinto capitolo di Scream uscito l’anno scorso, ha ora creato uno dei sequel peggiori. Scream VI ricomincia un tipo di racconto seriale, pronto ad andare avanti a lungo, seguendo le nuove basi impostate dal precedente, cioè seguendo l’asse familiare, le nuove generazioni e mettendo da parte progressivamente i personaggi originali. Lo fa però con una programmaticità e una metodicità che non hanno niente di coerente e tutto di forzato, cambiando ambientazione e cambiando dinamiche, fino ad approdare molto lontano dall’originale, in un luogo in cui la maschera dell’urlo di Munch non è più fuori luogo di quando la si vede alle feste di Halloween.

A tenere la barra dritta ci pensa l’inizio, unica parte del film che sembra effettivamente uscita dalla saga che ha sempre funzionato rappresentando la cinefilia nella cornice del giallo. Il cinema di tensione è in Scream il motore del desiderio di uccidere imitando i film, cioè il proprio oggetto del desiderio. Questo nella storia della saga ha sempre svelato la stupidità del fandom, punendo invece che esaltando la cinefilia maniacale, e così faceva il precedente. Adesso a New York, una delle due città del cinema americane, cinefili contemporanei di ambito accademico sembrano i protagonisti (e non era male!) prima che il film si diriga invece altrove. Rimarrà poi un solo personaggio a tenere il cerino delle teorie di Scream e del metacinematografico, ma di fatto il film si regge su altro, sulle famiglie e le dinastie.

Scream VI segna la definitiva contaminazione della saga con elementi delle soap opera quali le colpe dei genitori che ricadono sui figli, le contrapposizioni dinastiche, le storie d’amore usate come condimento e non come punto del racconto e la morte (o presunta tale) come stato dal quale tornare senza troppi problemi. E anche la nostalgia, che era così ben raccontata e affrontata nel precedente a partire da luoghi e oggetti, qui è trattata con maggiore grossolanità, con atteggiamento museale, esponendo i suddetti oggetti invece di farne un uso interessante. Un finalone in un cinema abbandonato trasformato in tempio della serie segnerà contemporaneamente il più facile e diretto riferimento metacinematografico ma anche quello che meno serve al senso del film. L’impressione è che fosse stato un altro il luogo non sarebbe cambiato niente.

L’unico dettaglio realmente originale che emerge è una crescente tendenza al vigilantismo. Le protagoniste si fanno giustizia da sole dichiarando la propria insoddisfazione nei riguardi delle forze dell’ordine e il film stesso impiega una buona parte delle proprie energie gore nel massacro dei colpevoli. L’obiettivo è sempre la soddisfazione del pubblico e il dolore fisico provato da chi lo merita. In Scream c’è sempre stato molto sangue e i colpevoli sono sempre morti in modi soddisfacenti ma stavolta l’impressione è che ci sia una diversa forma di concentrazione sul cercare il dolore altrui, le mille coltellate e i punti del corpo in cui più fanno male, a beneficio di un’idea di giustizia riparativa che passa dagli stessi mezzi dei colpevoli.

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