Scream VI, la recensione
Proseguendo sulla strada del precedente Scream VI ne tradisce tutti i presupposti finendo per essere il più scialbo tra i sequel
La recensione di Scream VI, al cinema dal 9 marzo
A tenere la barra dritta ci pensa l’inizio, unica parte del film che sembra effettivamente uscita dalla saga che ha sempre funzionato rappresentando la cinefilia nella cornice del giallo. Il cinema di tensione è in Scream il motore del desiderio di uccidere imitando i film, cioè il proprio oggetto del desiderio. Questo nella storia della saga ha sempre svelato la stupidità del fandom, punendo invece che esaltando la cinefilia maniacale, e così faceva il precedente. Adesso a New York, una delle due città del cinema americane, cinefili contemporanei di ambito accademico sembrano i protagonisti (e non era male!) prima che il film si diriga invece altrove. Rimarrà poi un solo personaggio a tenere il cerino delle teorie di Scream e del metacinematografico, ma di fatto il film si regge su altro, sulle famiglie e le dinastie.
L’unico dettaglio realmente originale che emerge è una crescente tendenza al vigilantismo. Le protagoniste si fanno giustizia da sole dichiarando la propria insoddisfazione nei riguardi delle forze dell’ordine e il film stesso impiega una buona parte delle proprie energie gore nel massacro dei colpevoli. L’obiettivo è sempre la soddisfazione del pubblico e il dolore fisico provato da chi lo merita. In Scream c’è sempre stato molto sangue e i colpevoli sono sempre morti in modi soddisfacenti ma stavolta l’impressione è che ci sia una diversa forma di concentrazione sul cercare il dolore altrui, le mille coltellate e i punti del corpo in cui più fanno male, a beneficio di un’idea di giustizia riparativa che passa dagli stessi mezzi dei colpevoli.