Scoop, la recensione
Grande film sul giornalismo eroico e meta-commentario sulle sue ombre, Scoop sorprende con una delle sceneggiature più raffinate dell'anno.o.
La recensione di Scoop, il nuovo film diretto da Philip Martin, in arrivo su Netflix il 5 aprile.
Scoop, quindi, non è (solo) la storia di come la redazione di Newsnight – programma di attualità della BBC – ottenne l’intervista che distrusse l’immagine del principe Andrew, travolto dallo scandalo dei suoi legami con Jeffrey Epstein e i suoi traffici sessuali di minorenni; è anche, e soprattutto, la storia di due istituzioni britanniche in lotta mediatica per la sopravvivenza: da una parte la Corona, dall’altra la BBC. L’una minacciata dagli scandali e dall’imminente vuoto di potere post-Elisabetta; l’altra in ribasso di popolarità, costretta a tagliare stipendi e dipendenti (e non scordiamo lo scandalo Jimmy Saville, qui ironicamente citato e di recente oggetto di un documentario Netflix).
Che il film persegua un doppiogioco – l’esaltazione di chi cerca la verità e il monito sulla natura interessata delle due parti – sembra suggerirlo anche un leitmotiv visivo: personaggi inquadrati accanto a finestre, impegnati a guardare fuori mentre qualcosa succede sullo sfondo. È il mondo reale da inseguire e catturare per far emergere i fatti? O quello delle crisi d’immagine da cui ripararsi restaurando la propria credibilità? Altrettanto interessante, nella sua onnipresenza, il tema dell’amore materno. Madri e figli che si guardano adoranti, si sostengono, si consigliano (il personaggio di McAlister aiuta suo figlio a dichiararsi a una ragazza; Elisabetta, fuori campo, consiglia il figlio prediletto Andrew su come navigare gli scandali). Siamo così affezionati alle nostre istituzioni da rifiutarci di affrontare la realtà. Chi dubiterebbe della propria madre?