Sausage Party - Vita Segreta di una Salsiccia, la recensione

Imbrigliato nella gabbia infantile dello sfregio alla morale comune, Sausage Party delle sue idee sembra non saper che fare

Critico e giornalista cinematografico


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Sausage Party fin dalla cartellonistica e dal character design non nasconde il proprio intento o le proprie allegorie sessuali. La storia di una salsiccia che sogna, per completarsi, di entrare dentro un panino dalla forma vaginale è solo la testa d’ariete di questo film di rivolta, in cui la società è tutta dentro ad un supermercato come nei film dell’orrore. Stavolta sono i beni di consumo e non però a mettere in scena i conflitti, le etnie e le paure sociali, a dire, ridendo, quello che il cinema non dice mai, quello che la morale comune nasconde.

Ad un giorno dal 4 Luglio nel grande supermercato in cui si svolge la storia, tutti sognano di essere comprati per accedere al paradiso, invece un “reduce”, un prodotto che viene restituito da un acquirente, torna con racconti terribili. I panini vengono aperti in due, le salsicce bruciate vive, le salse svuotate, le verdure fatte bollire vive e tutto alla fine è maciullato nelle bocche degli dei. Si sparge il panico, parte la rivoluzione.
La necessità di combattere quel che sta per accadere prende forma di notte con il viaggio di alcuni alimenti in tutte le zone del negozio, da quella messicana a quella dei bagel e dell’humus fino ai prodotti per l’igiene e a quelli eterni, senza scadenza, che sanno tutto.

In questo grande conflitto in un’America in miniatura, l’unica forza capace di indicare la via è quella, liberatrice del sesso. Il desiderio e la sua legittima soddisfazione sono le spinte più potenti verso il cambiamento e prenderanno forma in una grandissima orgia omo-etero-pansessuale. Non viene risparmiata chiaramente la religione e i suoi dogmi con cui gli alimenti sono stati ingannati e inquadrati per anni, né mancano le droghe, l’unica maniera per gli umani di vedere le cose come stanno, cioè che gli alimenti parlano e si muovono. In pratica il trionfo degli ideali adolescenziali, del semplicismo delle opposizioni da collettivo del liceo.

Il Toy Story del mondo pubblicitario (da lì viene l'estetica dei beni di consumo parlanti) parte dalla più basilare delle forme di rivolta, propugnando le idee più semplici con le argomentazioni più note e scontate, senza nessuna voglia di fare un ragionamento complesso ma tanto desiderio di mettere in scena qualcosa di proibito. Essere scandalosi più che usare quello scandalo per dei contenuti. Il sesso infatti non è mai funzionale a nulla, è un condimento godurioso comandato da un’infantile voglia di trasgressione che si rivela poi ben poco trasgressiva. Far accoppiare alimenti, ritrarre salsicce come peni e panini come vagine, far fare ad un taco una lesbica arrapata o far accoppiare un alimento arabo con uno ebreo (dello stesso sesso), è più materia da vignetta satirica, da murales di protesta, che da grande epopea della liberazione. Di nuovo il cinema che orbita intorno a Seth Rogen (qui attore, scrittore e produttore) sembra non poter fare a meno di essere una declinazione non sempre felice della stoner comedy.

Nonostante non dovrebbero esserlo, tutte le decisioni di questo film di Greg Tiernan e Conrad Vernon sembrano degli sfregi più che delle audaci invenzioni intellettuali. Perché dello sfregio hanno il medesimo divertimento, quella gioia dell’accumulo di inattesa perversione a bella posta, ma non possiedono il vero piacere di un punto di vista particolare e inedito.

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