Saturday Fiction, la recensione | Venezia 76
Fuori dalla sua comfort zone Lou Ye confeziona un film spento. Saturday Fiction è una cocente delusione
Questo cineasta che è stato capace anche in tempi recenti di exploit bellissimi (Love Bruises) che come molti conterranei ha raccontato i cambiamenti del suo paese ma che l’ha fatto con un occhio unico e personale, attaccato a sesso, volti e ambienti (Summer Palace), ora affronta uno snodo mondiale ma con toni che non gli appartengono. Lui che è il tipico cineasta cinese della sesta generazione (la stessa di Jia Zhangke), tutta macchina a mano senza fronzoli e storie urbane, girate per strada e nelle case, con questo intrigo in costume patinato e sofisticato davvero non ha nulla a che vedere.
Inutilmente complicato nell’intrigo e nei doppi e tripli giochi, Saturday Fiction (senza sorprese è il titolo della rappresentazione teatrale al centro del film) è fotografato in un bianco e nero non solo abbastanza inutile ai fini del film, ma nemmeno splendido, nemmeno duro, nemmeno patinato, nemmeno giustificabile. Non è davvero chiaro cosa sia accaduto e perché questo film che sembra non interessare in primis al regista sia venuto così.
Un momento unico in cui si respira l’aria dei film migliori di Lou Ye (quando la protagonista per estrarre un segreto ad un uomo anestetizzato e delirante si finge sua moglie recitando un amore tenero e tangibile) fa rimpiangere tutto ciò che Saturday Fiction non è.