Saturday Fiction, la recensione | Venezia 76

Fuori dalla sua comfort zone Lou Ye confeziona un film spento. Saturday Fiction è una cocente delusione

Critico e giornalista cinematografico


Condividi

Perché Lou Ye ha voluto raccontare questa storia in Saturday Fiction, presentato in Concorso al Festival di Venezia? Cosa ci ha visto nella versione romanzata di ciò che avvenuto nel 1941 a Shanghai e che ha cambiato il volto della seconda guerra mondiale? Non si capisce, ed è il problema principale del film.

Questo cineasta che è stato capace anche in tempi recenti di exploit bellissimi (Love Bruises) che come molti conterranei ha raccontato i cambiamenti del suo paese ma che l’ha fatto con un occhio unico e personale, attaccato a sesso, volti e ambienti (Summer Palace), ora affronta uno snodo mondiale ma con toni che non gli appartengono. Lui che è il tipico cineasta cinese della sesta generazione (la stessa di Jia Zhangke), tutta macchina a mano senza fronzoli e storie urbane, girate per strada e nelle case, con questo intrigo in costume patinato e sofisticato davvero non ha nulla a che vedere.

Ci sono ovviamente dei grandi sentimenti in ballo, perché l’attrice protagonista (interpretata da Gong Li) arriva a Shanghai per lavorare alla pièce teatrale di un suo ex. In realtà capiamo che è lì perché il suo attuale marito è prigioniero non si sa dove. Shanghai è dominata dai giapponesi ma nella concessione francese c’è una terra franca. Questi grandi sentimenti sono però appena accennati invece che essere nascosti per emergere con maggiore forza (l’arma segreta dei film di Lou Ye) e più andiamo avanti più se ne sente la mancanza.

Inutilmente complicato nell’intrigo e nei doppi e tripli giochi, Saturday Fiction (senza sorprese è il titolo della rappresentazione teatrale al centro del film) è fotografato in un bianco e nero non solo abbastanza inutile ai fini del film, ma nemmeno splendido, nemmeno duro, nemmeno patinato, nemmeno giustificabile. Non è davvero chiaro cosa sia accaduto e perché questo film che sembra non interessare in primis al regista sia venuto così.

Anche la grande sparatoria finale è confusa e inutilmente complicata. Si capisce che l’idea era di creare un piccolo pezzo di bravura, in cui l’azione avviene in maniere non convenzionali e stupendoci, ma nella pratica è solo caos e pallottole.

Un momento unico in cui si respira l’aria dei film migliori di Lou Ye (quando la protagonista per estrarre un segreto ad un uomo anestetizzato e delirante si finge sua moglie recitando un amore tenero e tangibile) fa rimpiangere tutto ciò che Saturday Fiction non è.

Continua a leggere su BadTaste