Santocielo, la recensione

Debole sulla parte di commedia Santocielo svela in realtà una maniera diversa di intendere il cattolicesimo al cinema, progressista e autonomo

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Santocielo, il film di Ficarra e Picone, al cinema dal 14 dicembre

Cinema cattolico. Corrente Bergoglio.

Il primo Natale era stato un indizio molto forte del fatto che, per la prima volta dopo tanti anni, qualcuno che ha la potenzialità economica di arrivare al vertice degli incassi in Italia ha anche una prospettiva religiosa. Santocielo, di nuovo a partire dal titolo, dalla cartellonistica e dalla trama, è forse un passo ancora più deciso che mostra con ancora maggiore chiarezza la prospettiva da cui tutto questo è fatto. Ficarra e Picone non sono dei pretini, almeno non lo sono più della media dei commedianti del cinema italiano (che in linea di massima non brillano per corrosività e audacia), hanno un’idea riformista e progressista del cattolicesimo che forse è la cosa più interessante di un film che per il resto di interesse ne stimola ben poco.

Già l’immaginario del regno dei cieli, così neoclassico, è strano. Tutti sono vestiti come antichi romani in un contesto da antica Grecia e Dio è interpretato da Giovanni Storti (l’idea è forse la migliore di tutto il film). Gli angeli sono subissati da preghiere inutili per questioni triviali e nel consesso con Dio viene proposto e approvato di inviare un nuovo messia. L’angelo scelto per andare sulla terra e mettere incinta con il solo tocco della mano una donna non è il più sveglio di tutti ma quello che vuole fare carriera (come accade nei film americani, in cui il mondo dei cieli o l’al di là è sempre altamente burocratizzato). Sulla Terra ci sarà un errore e a essere ingravidato sarà un uomo.

Il problema di Santocielo è proprio la commedia, cioè l’intreccio umoristico con cui dire qualcosa che si farebbe più fatica a dire seriamente. L’ora legale era stato un esempio aureo di come i due (in quel caso con Nicola Guaglianone) possono farlo, avevano usato il paradosso per un’idea intorno a cui girano spesso e che si ritrova anche qui, cioè quanto siamo pessimi quando siamo tutti insieme. Santocielo invece non usa mai il ribaltamento di un uomo che deve partorire per dire qualcosa (come si intuisce che forse vorrebbe) sul maschilismo e gli equilibri tra sessi nella nostra società. E non riesce nemmeno come in La matassa o Il 7 e l’8 a fare della semplice comicità efficace. È lungo ed è prolisso.

Riesce semmai, involontariamente, a fondare un nuovo cinema cattolico italiano in cui non c’è grande deferenza verso i simboli e i precetti religiosi, in cui le figure dell’immaginario fantastico sono normalizzate e così anche le questioni più scottanti, l’omosessualità è promossa e le suore si innamorano (per quanto di un angelo). Vite e passioni di uomini e donne di chiesa insomma, in cui però come sempre nel cinema italiano l’aborto non esiste. Nei film italiani l’ipotesi è sempre ventilata e con grande considerazione e rispetto per la scelta di abortire ma alla fine, com’è come non è, il feto lo si tiene sempre. Se l’aborto c’è nei film italiani è nel passato dei personaggi, un trauma esterno al film.

Santocielo quindi è progressista ma fino a un certo punto, si premette di prendere in giro Dio e di rappresentarlo (cosa non scontata per un film cristiano) e flirta con l’idea che non ascolti, affermando solo in chiusura e non con grande evidenza che non ascolta le richieste sciocche, ma per quelle importanti c’è. Il più classico degli atti da monelli che ha come vero fine affermare una nuova possibilità di fede, diversa, moderna, disincantata e poco succube della religione. Perfetta per la mentalità italiana.

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