Samurai Jack (quinta stagione): la recensione

Inizia come Mad Max: Fury Road, termina come Gurren Lagann, e in mezzo c'è tutto il resto: dopo tredici anni di attesa, finisce la storia di Samurai Jack

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C'è moltissimo di Mad Max: Fury Road nei flash iniziali di quest'ultima stagione di Samurai Jack. In realtà c'era sempre stato. Il mondo dominato da Aku è una landa desolata in cui è possibile incontrare di tutto, ma nella quale rimane una fortissima coerenza interna che permette di non dover spiegare tutto a parole. Un equilibrio sottile e difficilissimo da replicare, forse possibile in queste forme solo grazie a un'idea di animazione che alleggerisce e accompagna il tutto. La cosa eccezionale allora è ritornare, tredici anni dopo l'interruzione della serie originale, e ritrovare intatto quel mondo e quell'equilibrio. Samurai Jack è tornato con la quinta e ultima stagione. In dieci episodi il capitolo conclusivo della saga del guerriero che deve tornare nel passato e salvare l'universo.

Nel mondo dominato dallo spirito malvagio di Aku sono trascorsi cinquant'anni dall'ultima volta in cui abbiamo visto Jack. Non è invecchiato, almeno all'esterno, ma basta uno sguardo a rivelare come si senta sconfitto e stanco di lottare. Fury Road quindi. Jack è il guerriero della strada, perseguitato dai fantasmi dei genitori che ha deluso e dei bambini che non ha potuto salvare. Disilluso, va avanti, accarezza la morte, le parla perfino. Qualcosa è accaduto in questo lasso di tempo, che ha spezzato Jack. Questo arco narrativo finale è quindi anche una storia di rinascita e presa di coscienza del protagonista in vista della battaglia finale.

Samurai Jack, come Star Wars, è un grande contenitore di possibilità, è una storia che contiene tutte le altre. Jack è per definizione l'eroe che segue il famoso "cammino", Aku è un Male personificato, e tanto basta. Solo nella prima puntata di questo revival abbiamo un personaggio che sembra replicare una certa idea vista nei Guardiani della Galassia, ma abbiamo anche una scena di "genesi" semplicemente meravigliosa, e l'inizio di una caccia che ricorda l'uscita dei Nazgul da Minas Morgul.

Sarà solo l'inizio di un unico arco narrativo in dieci episodi, senza riempitivi, molto diretto, in cui ogni finale di puntata è legato strettamente all'inizio della successiva. Altra differenza con le precedenti quattro stagioni: la violenza. Il passaggio da Cartoon Network al blocco di Adult Swim si vede eccome. La scena già citata prima, ma è chiaro che Genndy Tartakovsky (ricordiamo anche Il laboratorio di Dexter, Le Superchicche, Star Wars: Clone Wars) vuole puntare al massimo. C'è sangue, più violenza, addirittura il tabù degli esseri umani uccisi viene violato ripetutamente.

Ma il tutto non viene snaturato. Questo è Samurai Jack e si vede. Nei silenzi, lunghi, prolungati, molto densi. Nella regia, che gioca con i tagli delle inquadrature e le prospettive meravigliose. Nell'animazione, sempre gratificante per lo spettatore, in grado di riempire vuoti di dialogo o intreccio. C'è un grande momento in bianco e nero nel terzo episodio: uno scontro che ha una potenza visiva e delle idee che raramente si vedono nei live action. Ma c'è anche spazio per l'ironia, per i ritorni di volti storici, per una new entry fondamentale. L'elenco dei riferimenti possibili o immaginabili sarebbe infinito: tanto per citarne uno più particolare degli altri, c'è tutta una storyline che riprende pesantemente Gurren Lagann, un nome che per gli appassionati di animazione giapponese vuole dire qualcosa.

Samurai Jack è un grande titolo diventato migliore grazie a questo blocco di episodi. Giunge dopo una pausa di tredici anni in cui l'animazione per adulti e ragazzi ha aumentato ancora le sue possibilità tramite molti titoli. Non raggiunge quei livelli, anche perché non può più recuperare quella freschezza, ma ha un'idea di revival seria e intelligente, e soprattutto giusta: Jack meritava una conclusione.

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