Samba, la recensione

Molto meno spiritoso ma capace di usare l'umorismo per arrivare ad un altro fine Samba è un netto passo avanti per i registi di Quasi amici

Critico e giornalista cinematografico


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Il cinema francese riflette ben più del nostro (e quindi ad un certo punto anche con più sostanza) sul problema dell'immigrazione.
Non sul problema "degli immigrati" ma su quello "dell'immigrazione", non la questione vista da chi è cittadino ma da chi cerca di diventarlo. Samba è una commedia poco commedia che fa un racconto dettagliato e coinvolgente di questo, del lentissimo processo di immigrazione da parte di un senegalese che cerca di stabilirsi a Parigi. Senza nessuna fretta imbastisce una storia d'amore con un'assistente sociale (anch'essa con non pochi problemi personali) tirata volutamente per le lunghe con stile, così che possa sostenere il passo lento del filone principale del racconto. Samba (interpretato da uno stanco e fuori luogo Omar Sy) fa di tutto per trovare lavoro, essere in regola, non avere problemi e spedire i soldi a casa con immani difficoltà, delle quali la travagliata storia d'amore (tutta corteggiamento e poco di concreto) è solo uno.

C'è uno zio inserito ma scorbutico e solo (quello si un attore dallo sguardo magnetico), un amico portoghese (a parole), un altro amico più in difficoltà con una ragazza da contattare che forse non si ricorda di lui, ci sono i molti lavori e soprattutto il terrore della polizia. Tutto questo è materia per una commedia, come già scritto, in cui le risate sono leggerissime (per volontà e non per incapacità), in cui il ridicolo spunta a tratti e spesso sa essere decisamente più efficace e tagliente di quanto non capitasse nel precedente e più moscio Quasi amici (in una scena indimenticabile che unisce empatia e grottesco per lavorare sui confini assurdi della disperazione attraverso la risata, Samba è spaventatissimo, ha il terrore di trovare ad ogni angolo un poliziotto e in metro, pieno di paura e paranoia, tira fuori una rivista sui cavalli per non sembrare immigrato). Di certo Nakache e Toledano continuano a portarsi appresso la passione per i contrasti su schermo tra minoranza e maggioranza, tra personaggi che possono e quelli che non possono, tra la potenza o il potere (in questo caso chi non ha nulla da temere dalla legge) e chi è impotente (il protagonista, il cui destino spesso sembra non dipendere da lui nonostante i suoi sforzi). Come se per rendere davvero l'assurdità di determinate condizioni occorresse affiancargli il loro opposto logico e farli flirtare insieme.

Il motivo per cui i cineasti possono permettersi di essere così dettagliati, precisi e di scendere così nello specifico nel loro racconto sta tutto nell'approccio alla storia. Là dove qualcuno di meno raffinato, più banale e con un'eccessiva voglia di posizionare il proprio film politicamente avrebbe contrapposto al singolo lo stato o l'ingiustizia palese, i due registi contrappongono al loro Samba un sistema che pare funzionare ma pieno di difetti, uno stato che non è malvagio ma nelle cui maglie è difficilissimo entrare, una popolazione non impotente o profittatrice (come tipico dei nostri film) ma anzi pronta ad aiutare, non fosse per delle regole che paiono fatte per essere aggirate più che per essere seguite. In questa maniera non si rappresenta lo scontro di un uomo contro un sistema avverso quanto un'avventura, lunga e complessa di una persona costretta a lottare.
L'obiettivo non è dare ragione a qualcuno o fare un proclama ma scatenare il rispetto.

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