Samad, la recensione

Sotto l'aria di sensibilità sociale di Samad si nasconde un discorso paurosamente xenofobo sulla presenza islamica in Italia

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La recensione di Samad, il film di Marco Santarelli al cinema dal 13 maggio.

Qualcuno ha scritto che Samad è un film dalle intenzioni nobili che si perde nelle ingenuità tipiche di un'opera prima. Per citare Seven, siamo d'accordo con la seconda parte. Non ci sarebbe motivo di dubitare che Marco Santarelli (esordiente nel cinema di finzione ma già documentarista e autore televisivo) abbia il cuore al posto giusto nel raccontare questa storia di crimine e integrazione etnica, che riprende le fila del suo documentario sulle carceri Dustur (2015). Riesce però veramente difficile conciliare l'idea espressa di uno sguardo equidistante sulla criminalità marocchina in Italia con modalità rappresentative che a tratti sembrano scivolare (inconsapevolmente?) nella macchietta etnica e nella demonizzazione religiosa.

La contraddizione di Samad il film è al 100% sovrapponibile a quella di Samad il personaggio (Mehdi Meskar), un ex spacciatore uscito di prigione che si è trovato un lavoro normale e cerca di rigare dritto. Figlio di un musulmano e di una cristiana, Samad è pensato per incarnare le difficoltà dell'integrazione in un contesto come quello italiano, dove i soldi della droga fanno gola e dove la sua doppia appartenenza ne fa una figura tragicamente apolide. La tragedia vera però sta nel modo in cui viene inquadrato questo dilemma, che consiste essenzialmente nell'allineare la riabilitazione e le speranze di assimilazione di Samad con un recupero delle sue radici cristiane a scapito di quelle islamiche, dipingendo queste ultime come un'alterità etnica inconciliabile col nostro paese e (peggio ancora) riducibile unicamente al suo volto più estremista e violento.

Detto fuori dai denti: in Samad l'Islam è equiparato in modo diretto ed esplicito al crimine. Questo avviene in due sensi: 1) con forse una sola eccezione, nessun personaggio islamico non è criminale. E 2) in quei personaggi islamici che delinquono il crimine è mostrato come un'estensione diretta e inevitabile della loro fede. In una scena un Imam predica dietro le sbarre che Allah vuole che i buoni musulmani spaccino. In altre scene (tante, troppe) gli ex compagni di banda di Samad prendono il suo rifiuto di tornare a delinquere come un tradimento della loro comune appartenenza religiosa (?!). Nessuno nega l'esistenza e i danni della radicalizzazione, ma mostrare episodi del genere (non importa quanto verosimili) come unico esito possibile dell'incontro fra culture è di un riduzionismo ributtante per un film che vorrebbe anche passare per illuminato.

Il dubbio che rimane è: ma tutto questo è voluto? Possibile che i realizzatori non si siano resi conto che mostrare gli islamici (salvo quello per metà cristiano, bello e assimilabile) come una parata di macchiette grottesche, mentre dall'altra parte a ricondurre Samad sulla via del Bene c'è un elegantissimo e italianissimo prete cattolico, potesse risultare fraintendibile? È meglio sperare che Samad non capisca il cinema, ignorando in buona fede le leggi dell'identificazione e della rappresentazione, o che sia coscientemente il manifesto bigotto di una fin troppo diffusa xenofobia italiana per cui, sotto sotto, "l'unico musulmano buono è un musulmano convertito"? Ai posteri l'ardua sentenza.

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