Samad, la recensione
Sotto l'aria di sensibilità sociale di Samad si nasconde un discorso paurosamente xenofobo sulla presenza islamica in Italia
La recensione di Samad, il film di Marco Santarelli al cinema dal 13 maggio.
La contraddizione di Samad il film è al 100% sovrapponibile a quella di Samad il personaggio (Mehdi Meskar), un ex spacciatore uscito di prigione che si è trovato un lavoro normale e cerca di rigare dritto. Figlio di un musulmano e di una cristiana, Samad è pensato per incarnare le difficoltà dell'integrazione in un contesto come quello italiano, dove i soldi della droga fanno gola e dove la sua doppia appartenenza ne fa una figura tragicamente apolide. La tragedia vera però sta nel modo in cui viene inquadrato questo dilemma, che consiste essenzialmente nell'allineare la riabilitazione e le speranze di assimilazione di Samad con un recupero delle sue radici cristiane a scapito di quelle islamiche, dipingendo queste ultime come un'alterità etnica inconciliabile col nostro paese e (peggio ancora) riducibile unicamente al suo volto più estremista e violento.
Il dubbio che rimane è: ma tutto questo è voluto? Possibile che i realizzatori non si siano resi conto che mostrare gli islamici (salvo quello per metà cristiano, bello e assimilabile) come una parata di macchiette grottesche, mentre dall'altra parte a ricondurre Samad sulla via del Bene c'è un elegantissimo e italianissimo prete cattolico, potesse risultare fraintendibile? È meglio sperare che Samad non capisca il cinema, ignorando in buona fede le leggi dell'identificazione e della rappresentazione, o che sia coscientemente il manifesto bigotto di una fin troppo diffusa xenofobia italiana per cui, sotto sotto, "l'unico musulmano buono è un musulmano convertito"? Ai posteri l'ardua sentenza.