Saltburn, la recensione

Quella di Saltbrun si potrebbe raccontare come la parabola di un giovane arrivista, figlia alla lontana di un cinema di lotta di classe che dell’immaginario della campagna inglese e dell’aristocrazia rampante trattiene un ribaltamento angosciante (inseguendo chissà quanto consciamente il cinema di Joseph Losey, o di Basil Dearden).

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La recensione di Saltburn, presentato alla Festa del Cinema di Roma 2023

La cruda scomposizione delle dinamiche del desiderio, nella tensione tra sesso (come coercizione) e potere (come privilegio di parte), era il fulcro tematico di Una donna promettente. Dopo quell’esordio controverso e stimolante, Emerald Fennell con Saltburn arricchisce di un’ulteriore variabile il medesimo discorso, realizzando un buon thriller psicologico dove ancora quel revanchismo di un singolo è spinto stavolta dalla frustrazione di classe.

Quella di Saltbrun si potrebbe raccontare come la parabola di un giovane arrivista, figlia alla lontana di un cinema di lotta di classe che dell’immaginario della campagna inglese e dell’aristocrazia rampante trattiene un ribaltamento angosciante (inseguendo chissà quanto consciamente il cinema di Joseph Losey, o di Basil Dearden). Il protagonista è il perturbante Barry Keoghan, qui Oliver, che vediamo raccontare a ritroso la sua vita da quando nel 2006 arriva all’Università di Oxford, solo e senza amici, insicuro nei suoi abiti proletari. Da subito, Oliver prova un’ammirazione totale per il bello e desiderabile Felix (Jacob Elordi), di cui riesce a diventare amico. La coronazione del sogno avrà i contorni di un luogo: invitato da Felix, Oliver passerà infatti un’intera estate nel castello di famiglia di questo, la residenza di Saltburn - una proprietà immensa dove il brivido del privilegio porterà Oliver a fagocitare la sua esistenza e la sua identità per divorare quella di Felix.

Costruito secondo l’ascensione progressiva verso un climax catartico, Saltburn imposta subito e con intensità il suo oggetto, descrivendo molto bene il desiderio duale e misterioso di Oliver, le sfaccettature della sua volontà. Grandissima parte è merito della bravura mostruosa (letteralmente) di Barry Keoghan, che qui Fennel con non poca perspicacia lavora esattamente sul solco della sua interpretazione più iconica - quella di Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos, cui il film effettivamente trae non poca ispirazione per toni e atmosfere. Parimenti, la desiderabilità di Jacob Elordi è plateale, per Oliver e per lo spettatore: è quella della star di Euphoria, del divo Elvis di Sofia Coppola, di cui Fennel trattiene quell’esatta carica di strapotere sessuale.

Insomma la scelta del casting è ottima e pensata in modo extra-filmico, saggiamente derivativo.  Barry Keoghan però - e qui sta la grande crepa - porta sulle sue spalle il peso intero di un film che, arrivato a buon punto, perde il filo della trama e l’accortezza del minimalismo, comincia ad aggiungere piste e a fa svoltare (quasi) arbitrariamente Oliver verso una certa direzione. L’irruenza di questo cambio è palese, ma una volta accettato questo “cambio” il film funziona comunque in virtù della regia coinvolgente e a breve distanza di Fennell (che ama stare vicina agli attori), della sua messa in scena estetizzante ma mai pomposa. 

La cosa frustrante è che Saltburn, per quanto notevole nello sviluppo e per la sua capacità di creare discorso, cerca così tanto la crudezza per fare metafora e chiudere ad effetto (con un’idea di lavoro come azione che definisce la classe, che è notevole ma è mal posta) che il castello di carte del thriller si affloscia, proprio sul più bello, nella banalità di un plot twist.

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