Saint Omer, la recensione

Rielaborando la tragedia di Medea, Alice Diop esordisce nel cinema di finzione con un dramma rigoroso ma mai realmente incisivo

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La nostra recensione di Saint Omer di Alice Diop, in concorso al 79° Festival di Venezia

Ahi, scellerata, di ferro, di roccia / sei, che i tuoi figli, i tuoi stessi germogli / con la tua mano di vita li togli? Così Euripide, quasi duemilacinquecento anni fa, faceva inveire il suo coro contro Medea, spietata madre assassina che, con l’uccisione dei due figlioletti, vendicava l’abbandono del marito Giasone. Una figura gigantesca, resa immortale non solo dal grande tragico greco, ma dalle successive opere di Seneca, Ovidio, Corneille e innumerevoli altri.

Oggi è Alice Diop a dare una’ interpretazione tutta personale del mito, nel suo esordio al cinema di finzione Saint Omer. La vicenda è stravolta e modernizzata, ma le somiglianze con il mito saltano all’occhio; davanti a una giuria che è coro silente e a un pubblico che è riflesso dell’occhio dello spettatore, si svolge il processo all’enigmatica Laurence Coly (Guslagie Malanda), rea confessa dell’omicidio della figlia di quindici mesi, Elise.

Nuovo epos

Come Medea, anche Laurence è una straniera arrivata in una terra comunemente bollata come più civile rispetto alla sua nazione d’origine; e come straniera continua a essere vista a dispetto di una brillante intelligenza, come emerge dalle deposizione in tribunale della sua insegnante all’università. Sotto gli occhi della silente protagonista del film, la scrittrice Rama (Kayije Kagame), il dramma della ”barbara” Laurence prende forma attraverso le testimonianze delle persone a lei più vicine. Eppure…

… eppure, il mistero permane. Saint Omer si rifiuta categoricamente di dare una risposta alle molte, moltissime domande che emergono dalle estenuanti scene in aula; in linea con l’occhio da documentarista di Diop, si tiene al di sopra dei concetti di colpevolezza e innocenza, di bene e male. Se Euripide permeò il suo testo di un fatalismo catartico, anche la regista sublima l’efferatezza del gesto di Laurence, tramutandolo in occasione di riflessione per lo spettatore.

Chimere invisibili

In aggiunta al riferimento a Medea, Diop inserisce - nella toccante arringa finale della difesa - l’accenno a un altro mito, quello della Chimera. È una strizzata d’occhio quasi impercettibile, poiché subito collegata all’ambito medico più che a quello letterario; tuttavia, non fa che ribadire il concetto alla base di Saint Omer: certi atti sono sempre esistiti e, a dispetto del tabù che recano con sé, sempre esisteranno.

In parallelo al processo, Diop segue anche la storia di Rama, al lavoro su un nuovo romanzo dal titolo, guarda un po’, Medea naufragata. Proprio in virtù del libro, ella si trova ad assistere al processo e a interrogarsi sul difficile rapporto con la propria madre; una madre assente, spettro indifferente che aleggia nella memoria della protagonista gettando inquietanti ombre sul suo eventuale futuro di madre. Se è vero che, scientificamente, portiamo in noi tracce corporee delle nostre madri, cosa ci garantisce che saremo migliori di loro?

Occasione perduta

Malgrado un rigore formale coraggioso e performance attoriali asciutte e potenti, Saint Omer non risulta poi così incisivo quanto le sue premesse lasciavano intuire. Il conflitto interiore di Rama resta larvale, così come non vengono mai realmente esplorati i dissidi con la madre; tutto questo contribuisce a depotenziare drammaticamente quella che è la cornice del film, rendendola in fin dei conti una parte debole che nulla aggiunge al discorso intavolato dal processo.

L’ideale di oggettività portato avanti da Diop funziona a metà, lasciando Saint Omer in stallo in una palude indefinita e priva di contraddittorio. Peccato; avremmo voluto vedere più coraggio, più originalità, più cuore nella trattazione di un tema del genere. La pur coinvolgente arringa conclusiva non osa nulla fuori dal seminato che impone di guardare alla madre che uccide il proprio figlio come a una folle; un modo tutto sommato assai convenzionale per liquidare la mostruosità insita nella maternità, mostruosità che avrebbe offerto sì un punto di vista radicalmente nuovo sull’argomento. Un po’ si rimpiange Euripide, che - in un contesto culturale anni luce diverso - faceva fuggire Medea trionfante su un carro mandato dal sole.

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