Run, la recensione
Thriller standard nella scrittura, Run si riscatta con una buona gestione della tensione in funzione di un metaforone impossibile da mancare
Tv movie in confezione splendida, non c’è da aspettarsi troppo da Run altrimenti si rimane delusi facilmente (molto facilmente). Aneesh Chaganty ha Sarah Paulson e le fa fare Sarah Paulson in un film che sfrutta al massimo l’immagine maligna che si è costruita e prosegue il discorso iniziato da Chaganty con il film precedente (Searching, in cui un padre cerca una figlia tramite mille schermi). Caratteri tagliati con l’accetta, molto forti e polarizzati al servizio di una storia convenzionale, aggiornata ad un’epoca in cui i ponti da tagliare con il mondo esterno sono tantissimi (non solo la scuola fatta a casa ma anche telefoni, smartphone, connessione casalinga…). Quello che conta in Run è solo la suspense e la capacità di divertirsi un po’ con la tensione sopra le righe, l’esagerazione di un conflitto domestico che diventa una lotta tutta fisica e ben poco verbale, portata avanti da una ragazza che si può muovere pochissimo (e per questo quando lo fa il metaforometro raggiunge il massimo indicatore).
Il cinema madre vs. figlia negli anni in cui le donne conquistano centralità nel discorso filmico si evolve in un film in cui, finalmente, la figlia non è più solo vittima ma motore di una ribellione che parte dalla testa, si alimenta della sua intelligenza tramite mille piccoli espedienti, e infine si materializza in una lotta titanica contro il proprio corpo infermo per scoprire, muoversi, vincere la potenza di una madre che controlla tutto da anni. Implausibile con dolcezza, come lo sono i film di questo tipo che sacrificano molto volentieri un po’ di credibilità per un po’ di spettacolo, Run funziona più che altro come metaforone del passaggio all’età adulta. Il lavoro minimo sul senso ma, di nuovo, Run non è quel tipo di film.