Run Hide Fight, la recensione | Venezia 77

Run Hide Fight è una condanna troppo sbrigativa e schiamazzata di diverse faccende, abbozzate superficialmente senza essere mai prese sul serio

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Esiste davvero un modo per mettere in scena uno school shooting dopo quella scena di Vox Lux di Brady Corbet? Probabilmente no. Ma ci prova lo stesso Kyle Rankin con Run Hide Fight, un dramma patinato e incerto sui suoi stessi valori che elegge la diciasettenne burbera e problematica Zoe Hull (interpretata da Isabel May) all’american hero della situazione, costruendo su di lei la contraddizione tutta a stelle e strisce dell’essere estremamente umanisti e insieme profondamente protezionisti e individualisti.

Zoe è all’ultimo anno di liceo e non vede l’ora di andarsene da casa. Ma la morte della madre e la pressante presenza del padre ex-militare che la istruisce all’uso delle armi la trattengono nel suo mondo emotivo presente. Solo l’amicizia speciale con Lewis (Olly Sholotan) sembra regalarle un po’ di sollievo, ma il tutto è destinato a essere sconvolto quando una mattina dei compagni di scuola decidono di attuare il più grande school shooting di sempre. Zoe è però “pronta alla guerra”, e indossata la giacca da soldato del padre si auto affida la missione di salvare i suoi compagni: ovviamente con quella modestia naturale che solo gli eroi possono avere.

Forte dell’apprendistato nelle action/comedies alla Edgar Wright come Night of the Living Deb e Infestation, Kyle Rankin usa le conoscenze registiche precedenti per creare un ritmo coinvolgente e una convincente dinamica action; ma tolto lo strato superficiale, Run Hide Fight è una condanna troppo sbrigativa e schiamazzata di diverse faccende, abbozzate superficialmente senza essere mai prese sul serio. Dal bullismo all’uso spettacolare dei social media per perpetuare la violenza, passando per l’elaborazione del lutto e ovviamente il gun control, Run Hide Fight sembra prendersi inconsapevolmente in giro da solo. Ogni tema è risolto nel suo essere mostrato: lo shooter che usa la diretta per farsi approvare, le tv locali che spettacolarizzano la morte, l’assalitore che spiega la sua storia di bullismo, il fantasma della madre che parla alla protagonista dicendole che va tutto bene.

Tutto è palesemente messo lì apposta, indicato a gran voce, e non c’è sequenza action che tenga se a rovinarla sono le facilonerie. Ma la cosa allora più grave (perché solo questo Rankin sembra affermare in modo deciso) è il dichiarare esplicitamente, dopo due ore di ragazzi massacrati e terrorizzati, che in fondo le armi sono necessarie, e va bene usarle: basta che sia per la giusta causa…

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