Rumore bianco (White Noise), la recensione

La nostra recensione di Rumore Bianco, film diretto da Noah Baumbach e presentato in concorso a Venezia 79. Con Adam Driver, Greta Gerwig

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La recensione di Rumore bianco, in concorso alla 79 esima edizione del Festival di Venezia

Il “rumore bianco” è l’artificio prodotto dal consumismo americano nel secolo scorso. È il rumore dell’ottimismo sfrenato, del lifestyle, dei mass media: tutti strumenti di cui ci si serve per rimuovere la paura della morte. È il suono dell’illusione del benessere infinito.

In una certa misura sorprende che proprio Noah Baumbach abbia deciso per primo di adattare il romanzo visionario, ma ancora oggi attuale, scritto da Don De Lillo nel 1985. Baumbach, escluso il drammatico Marriage Story, è infatti un autore di sofisticate commedie dalla scrittura acuta, dalla recitazione esuberante. Con Rumore bianco invece pur riportando piuttosto fedelmente la storia del romanzo sullo schermo Baumbach tenta una strada diversa che  si rivela un vicolo cieco: non solo perché dimezza la profondità filosofica di De Lillo, ma anche perché cerca di farci entrare a forza un ottimismo di fondo che stride con tutto il resto: stride con l’artificio alienante e mortifero del progresso (rappresentato dal supermercato, dal mondo accademico e scientifico) con la malinconia di un vivere ripetitivo e accomodante (rappresentato dal nido familiare). Tutti aspetti che Baumbach racconta di fretta, con dettagli sparsi ed ugualmente (ir)rilevanti, mentre cerca di far entrare più trama possibile attraverso montaggi paralleli e dialoghi confusionari, spesso troncati di netto.

In sintesi Rumore bianco racconta il viaggio metaforico di fronte alle paure più remote di Jack Gladney (un invece ottimo Adam Driver), professore presso il College di Blacksmith in Studi hitleriani. Siamo nei brillanti anni Ottanta, i supermarket scintillano insieme ai colori sgargianti di abiti e oggetti e al suono della tv, tra disastri live e pubblicità (sempre mischiato ai continui battibecchi di casa Gladney). Jack è sposato con la dolce Babette (Greta Gerwig, invece esageratamente stralunata e macchinosa per il ruolo) in una grande casa dove vivono con tutti i figli dei loro matrimoni precedenti. Solo un grande evento e una successiva rivelazione (di più non è giusto svelare) scuoteranno nel profondo le apparenti sicurezze di questa grande famiglia.

Di fronte alle mille possibili direzioni tematiche Rumore bianco sembra non sapere bene che approccio riflessivo tenere: più che altro galleggia su una superficie di suggestioni e di toni diversi (con momenti drammatici, noir e anche di commedia) senza riuscire mai ad esplorare l’emotività dei personaggi. Un aspetto che sarebbe invece cruciale, trattandosi di una film charachter-driven sul percorso di autoconsapevolezza del protagonista, la sua paura di un certo abisso, la paura di guardare in faccia un’orribile - seppur naturale - realtà.

Noah Baumbach osserva questo vivere con fretta (ma questa fretta non può e non deve essere comica), accorciando sempre i tempi di cui le scene avrebbero bisogno per raccontare l’invisibile che sta dietro quella realtà. I “fantasmi” della mente di Jack non sono sufficienti a raccontare tutto ciò e i dialoghi, che sarebbero invece la sua specialità, sono fiacchi, privi dell’intensità non solo di De Lillo ma del Baumbach a cui eravamo abituati. Tanto rumore per (quasi) nulla: si salvano solo le artificiose apparenze.

Siete d’accordo con la nostra recensione di Rumore bianco? Scrivetelo nei commenti!

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