Rosso Istanbul, la recensione

Non c'è molta Istanbul in Rosso Istanbul, non c'è quell'ambiente che dovrebbe dare un senso al film, risvegliare passioni e cambiare i personaggi

Critico e giornalista cinematografico


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Gran parte dei film di Ferzan Ozpetek sono occupati dal risveglio delle passioni sopite nei personaggi. Il desiderio di questo regista di raccontare la forza dirompente che le emozioni più autentiche e ancestrali hanno molto spesso passa per esseri umani che la vita ha raffreddato e che starà agli eventi del film riscaldare. Nello specifico qui è il ritorno in Turchia a operare il risveglio in un uomo con alle spalle un lutto terribile, che sembra avergli fatto chiudere i conti con la parte panica della vita. Di ritorno da una sorta di esilio volontario a Londra, troverà nella sua città natale luoghi, lingua, cibo, donne e tutto ciò che a Istanbul sa di turco e quindi di autentico a rimetterlo in strada. Nei posti da cui proveniamo sta l'essenza più profonda di chi siamo.

Tuttavia c’è pochissima Istanbul in Rosso Istanbul. Nonostante quella sia l’ambientazione di tutto il film, non vediamo quasi niente del tessuto metropolitano. Quello che ha girato Ozpetek è un film di interni, di piani alti, in cui la città è vista ad altezza drone, tramite ampie panoramiche. Per strada, in mezzo alle persone il film ci sta pochissimo. Nei locali, vicino ai vicoli o in tutte quelle parti specifiche di Istanbul, quelle in grado di mescolare personaggi e paesaggi, che mettono sullo sfondo o addirittura in primo piano quegli elementi che dovrebbero forzare lo scrittore in crisi a una nuova consapevolezza, saranno ambientate un pugno di scene che si affrettano a riempirsi di vita, proteste, ragazzi e persone indaffarate a vivere la metropoli con trasporto.

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Tra scrittori, intellettuali, architetti, loft e luoghi talmente aderenti agli standard sofisticati e cosmopoliti da poter esistere ovunque, il film si perde come perso è uno dei personaggi che a poco dall’inizio e senza un motivo non si trova più e la cui ricerca motiva molti dei cambi di scena e del peregrinare della storia. Ozpetek si mette in scia ai temi e agli svolgimenti di L'Avventura come già in passato aveva fatto con Europa '51 e altri classici del cinema italiano. Eppure l’impressione è che di tutto quel che Rosso Istanbul vorrebbe essere nel film non ci sia molto. Che non ci sia la potenza di una radice culturale, che non ci sia un rapporto con l’ambiente, che non si percepiscano suoni, profumi e consistenze uniche, che Istanbul non sia mai davvero rossa e che anche la sua particolarità più evidente (il Bosforo) non abbia caratteristiche esclusive.

Stranamente proprio un regista che in carriera ha lavorato molto sui luoghi, che ha nella scenografia una delle sue armi più affilate, riuscendo ad ambientare quasi sempre le sue storie nei posti, nelle stanze o negli ospedali più giusti, qui non riesce a fare lo stesso con una città intera. Rosso Istanbul purtroppo è la noiosa ricerca di una fiamma, di qualcosa cui non si sa dare un nome ma di cui si avverte la mancanza. Anche un finale che dovrebbe ricongiungere l’uomo all’ambiente per "immersione" in realtà, dopo un film così lontano dalle sue aspirazioni, assomiglia solo ad una placida fine tranquillizzante invece di essere la fantastica chiusura del cerchio che vorrebbe.

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