Romeo & Juliet, la recensione [2]

La nuova versione del dramma shakespeariano Romeo & Juliet sa di vecchio anche se ad interpretarlo sono le due giovani star Douglas Booth e Hailee Steinfield

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Si parlava di lui come possibile regista di Daredevil in quegli anni a ridosso della definitiva esplosione del cinefumetto con il primo X-Men di Bryan Singer pronto a partire.

Poi Carlo Carlei, il quale aveva già assaggiato un pezzo di Hollywood con il film per famiglie Fluke con Matthew Modine e Nancy Travis, non fece quel salto sperato verso l'élite del cinema spettacolare diventando un ottimo timoniere di solide fiction tv come Padre Pio e Ferrari, entrambe con Sergio Castellitto. Per il regista calabrese che fece impazzire gli americani, e non solo, con l'esordio La corsa dell'innocente (1992) deve essere stato dunque importante dirigere ora (anche se il film è quasi di due anni fa) una coproduzione internazionale così ambiziosa come Romeo & Juliet. In primis perché il cast artistico e tecnico è globale. In secundis perché c'era più di qualche speranza che la cosa potesse diventare grossa grazie a un nome come Julian Fellowes in sceneggiatura reduce da Oscar per Gosford Park e creazione della serie tv preferita di Tony Stark Downton Abbey. L'idea era anche quella di far diventare l'intramontabile tragedia sui due innamorati di Verona appetibile al pubblico di adolescenti. Ecco quindi scelti Douglas Booth come Romeo dei Montecchi e Hailee Steinfield come Giulietta dei Capuleti.

Lui si sta imponendo con Noah, Posh e Jupiter - Il destino dell'universo come uno dei giovani divi inglesi sulla cresta dell'onda, mentre lei è riuscita già a 15 anni ad ottenere una nomination Oscar per Il grinta dei Fratelli Coen. Com'è questo ennesimo adattamento del capolavoro scespiriano? Meno energetico e frizzante del film in costume di Franco Zeffirelli del 1968 (un punto di riferimento per Hollywood ancora non superato in senso classico) e meno coraggioso e divertente della rilettura postmoderna di Baz Luhrmann del 1996 con un Leonardo DiCaprio e Claire Danes all'epoca in forma smagliante. Intendiamoci: il film di Carlei non è un disastro ma nemmeno un film per cui strapparsi i capelli. Booth e Steinfield sono corretti ma senza guizzi mentre le tante scene di combattimenti avrebbero meritato una coreografia più, come dire, dinamica, soprattutto se si voleva conquistare il pubblico di Twilight e Pirati dei Caraibi. Sono tutti un po' troppo impacciati quando tirano fuori spadini e spadoni questi giovani bellissimi signori dell'aristocrazia veronese.

Le location italiane sono affascinanti (Subiaco, Tuscania, Mantova e l'autentica Verona) ma tutto ha un sapore preconfezionato e troppo asettico per non risultare già visto e digerito. Non aiuta la colonna sonora leggermente soffocante di Abel Korzeniowski (e dire che ha portato a casa l'ambito IFMCA Award battendo nel 2013 John Williams ed Ennio Morricone!) ed il fatto che i non protagonisti del largo cast siano mille volte più carismatici delle due giovani star. Tra loro spiccano il genio di Homeland Damian Lewis (è un papà di Giulietta nervoso ma sempre credibile), la bravissima Lesley Manville tanto amata da Mike Leigh (è la badante di Giulietta) e un intenso Paul Giamatti (è il frate francescano dai buffi occhiali Lorenzo) dal pianto straziante.

Il film è drammaticamente medio. Decidete voi se è un terribile difetto o meno.

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