[Roma2016] La Tartaruga Rossa, la recensione

Tarato su un'estetica a metà tra Europa e Giappone, La Tartaruga Rossa è una coproduzione Ghibli che fatica a emanciparsi dalla favola spirituale

Critico e giornalista cinematografico


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Non è una storia di religione ma senza dubbio una spiritualista quella di La Tartaruga Rossa. Una parabola di trasformazione ed evoluzione, crescita e cambiamento, in cui cambiare pelle e forma è approdare ad un nuovo stadio, proprio come nei dettami delle religioni orientali.
Naufragato dalla sua barchetta, un uomo approda sulle sponde di in un'isola deserta. Intenzionato a fuggire costruisce per tre volte una zattera che per tutte e tre le volte arrivata al largo viene distrutta da qualcosa che si scoprirà essere una grande tartaruga marina. Infuriato l'uomo la ribalterà non appena questa approderà a riva, segnandone la morte. Ma dal guscio dopo qualche giorno uscirà una donna, assieme alla quale si creerà un nuovo nucleo familiare, con una nuova vita e l'idea di stanziarsi sull'isola. L'arrivo di uno tsunami e il rischio di morte segnerà il momento in cui il nuovo nato, ormai adolescente, deciderà di separarsi dai genitori a cui non resterà che invecchiare insieme fino alla fine dei loro giorni.
Passione, amore, tempesta, emancipazione, libertà, costrizione, tutte le opposizioni logiche sono presenti in una serie di quadretti anche troppo simbolici.

Certo questo film girato e immaginato da un olandese ma coprodotto dallo Studio Ghibli (con il parere non poco influente di Isaho Takahata) ha dalla sua uno stile visivo unico, in equilibrio tra linea chiara francese e minimalismo nipponico, nonchè la capacità di dire tutto quel che ha da dire con i silenzi, senza dialoghi e con un pochi tratti. Solo musica e rumori, solo azioni e recitazione dei personaggi disegnati, in inquadrature in cui i vuoti contano più dei pieni, in cui l’assenza di tratto è come il silenzio: espressiva. Tutte componenti che ne aumentano il portato simbolico e la dimensione spirituale. La Tartaruga Rossa però è un lungometraggio che ha il medesimo ritmo di un corto e il medesimo piccolo intento che si rivela in una grande conclusione.

È indubbio che il minimalismo del disegno e la maniera in cui uomini e ambienti sembrano vivere della stessa materia, perchè disegnati esattamente con lo stesso tratto e le stesse linee sottili, creano un clima realmente propedeutico a quella comunione con il mondo tanto ricercata.
Tuttavia questa volontà di avere molti paralleli, di raccontare altro all’interno della storia del naufrago è molto meccanico e forzato. Più che altro la parte meno agile del film è il suo avere una ed una sola chiara chiave d’interpretazione, struttura che inevitabilmente lo rende un po’ puerile e poco maturo. Alla fine La Tartaruga Rossa nonostante sforzo e maestria tecniche, non riesce ad affrancarsi dall’etichetta di “favoletta spirituale”.

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