[Roma2016] Moonlight, la recensione

Tre età di un afroamericano di Miami, Moonlight cerca di mettere in scena le ricadute di una vita dura sui sentimenti, ma mostra solo la propria boria

Critico e giornalista cinematografico


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Con tre salti temporali Moonlight passa da Little a Chiron fino a Black, tre nomi per la medesima persona in tre età diverse: circa 10 anni, circa 17 e circa 27 (a spanne, non vengono mai dichiarate in realtà). Tre momenti diversi che costituiscono il film, tre fasi utili a raccontare la formazione di una personalità. Little è un bambino senza padre che trova in un signore della droga del ghetto un nuovo padre amorevole e una famiglia che lo curi; Chiron è un ragazzo che comincia a pensare di vivere in maniera indipendente, scopre di essere omosessuale e riceve la prima grande delusione della sua vita, assieme alle prime vere botte; Black è un gangster fatto e finito, spacciatore grande e grosso che ha dimenticato l’omosessualità fino a quando alla cui porta non bussa il passato.

Verrebbe da pensare che tutto Moonlight sia immaginato intorno al proprio finale, che tutto il film sia organizzato e scritto per dare senso all’ultima fase, l’incontro tra una persona che la vita ha costretto a diventare dura e il proprio passato molle e fragile. Perché davvero nelle prime due fasi della vita di questo protagonista non c’è molto di interessante se non l’evidenza della prosopopea di Barry Jenkins, autore che deve avere un’altissima opinione di se stesso, che cerca l’aulico senza nasconderlo (ma anche senza trovarlo) e che nutre così tanta fiducia nelle proprie immagini e nelle proprie doti di narratore da essere convinto che, pur facendo così poco, il suo film riuscirà lo stesso a parlare allo spettatore come fosse già un classico senza tempo.

Trasfigurando la vita dura di periferia attraverso la poesia, ripulendone un po’ l’estetica per non turbare più di tanto e condendola di una colonna sonora che suoni come musica sacra per aumentare l’effetto intellettuale, Moonlight nutre tanto interesse per entrare nel salotto buono del cinema, quanto ne nutre per essere onesto.
Non che non riesca nel segmento finale a raggiungere quella tensione tra l’erotismo, il desiderio, le catene di una vita difficile, il giudizio sociale e un passato ingombrante, tutte spinte in competizione tra di loro in un unico lungo dialogo, che è più di quanto molti film possano vantare, ma è anche evidente quanto limiti la sua discesa in basso, quanto ripulisca i propri bassifondi per essere tollerabile da tutti. L’operazione in sé non sarebbe condannabile (come non lo è mai cercare di ampliare il proprio pubblico) a patto di non finire per spacciare per duro ciò che non lo è o di non finire, come invece fa, a considerare molto poetico e simbolico ciò che è solo ripulito.

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