[Roma2016] Moonlight, la recensione
Tre età di un afroamericano di Miami, Moonlight cerca di mettere in scena le ricadute di una vita dura sui sentimenti, ma mostra solo la propria boria
Verrebbe da pensare che tutto Moonlight sia immaginato intorno al proprio finale, che tutto il film sia organizzato e scritto per dare senso all’ultima fase, l’incontro tra una persona che la vita ha costretto a diventare dura e il proprio passato molle e fragile. Perché davvero nelle prime due fasi della vita di questo protagonista non c’è molto di interessante se non l’evidenza della prosopopea di Barry Jenkins, autore che deve avere un’altissima opinione di se stesso, che cerca l’aulico senza nasconderlo (ma anche senza trovarlo) e che nutre così tanta fiducia nelle proprie immagini e nelle proprie doti di narratore da essere convinto che, pur facendo così poco, il suo film riuscirà lo stesso a parlare allo spettatore come fosse già un classico senza tempo.
Non che non riesca nel segmento finale a raggiungere quella tensione tra l’erotismo, il desiderio, le catene di una vita difficile, il giudizio sociale e un passato ingombrante, tutte spinte in competizione tra di loro in un unico lungo dialogo, che è più di quanto molti film possano vantare, ma è anche evidente quanto limiti la sua discesa in basso, quanto ripulisca i propri bassifondi per essere tollerabile da tutti. L’operazione in sé non sarebbe condannabile (come non lo è mai cercare di ampliare il proprio pubblico) a patto di non finire per spacciare per duro ciò che non lo è o di non finire, come invece fa, a considerare molto poetico e simbolico ciò che è solo ripulito.