[Roma2016] Manchester By The Sea, la recensione
Uno dei migliori film dell'anno, un melodramma tenue dai ritmi cui non siamo abituati. Manchester By The Sea è la minuziosa costruzione di un maestro
È più o meno qui che i flashback in cui lentamente vediamo la vita precedente di Lee si fanno sempre più frequenti e chiari fino a mostrarci cosa sia successo (con un momento di rapida alternanza che stona con lo stile invisibile tenuto fino a quel momento ma crea una dissonanza armoniosa, un dettaglio da memoria istintiva di grande maestria di montaggio).
La decisione di non farci sapere subito tutto ma di portarci a metà della storia e poi rivelare lì come mai Lee sia diventato così, è una delle molte che rendono Manchester By The Sea il capolavoro che è, un melodramma tenue, potente e appassionato della costruzione. Come un diligente ingegnere Kenneth Lonergan non ha fretta di completare la costruzione, procede con tutta la calma necessaria e partendo da fondamenta di ferro. Lee dovrebbe rimanere in una cittadina da cui era scappato e in cui non vuole stare, dovrebbe badare ad un ragazzo adolescente diverso da lui e arrivare ben presto a rivivere il suo passato che lo strangola. Quando capiamo tutto ciò abbiamo già interiorizzato carattere e problemi dei personaggi e ormai siamo dentro.
La storia, nonostante i flashback utili a raccontarla con il coinvolgimento che richiede, è molto semplice ma l’impressione non è mai quella del film girato e scritto di getto, quanto del testo denso, scritto e riscritto. Manchester By The Sea è un progetto inesorabile in cui ogni scena e ogni dialogo hanno il tempo che meritano, ogni interpretazione è misurata quanto deve, una composizione in cui ogni elemento è stato posto a fatica là dove si trova.
Lonergan non vuole commuovere (pur riuscendoci), vuole partecipare. Molti raccontano per suscitare una reazione, lui racconta per rendere il pubblico parte di un gruppo di persone (i protagonisti), per portarli in una cittadina dal vento infame, freddissima, in cui ogni cosa sembra difficile, anche cercare la macchina se hai dimenticato dove l’hai messa, un posto piccolo in cui ogni verità viene rinfacciata (“Ma lui è QUEL Lee Chandler??”).
Il nome della città è nel titolo anche per questo, perché simili difficoltà emergono proprio là, in posti come quelli, in cui non ci si può nascondere, in cui per quanto si cerchi di dimenticare e di voltare pagina capiterà di incontrare per strada una persona proveniente dal passato e di stringere la più fugace, intensa, commovente, straziante e umana delle conversazioni. Il grande assolo di Michelle Williams e Casey Affleck è un momento di cinema degno delle migliori sceneggiature americane degli anni ‘50. Ciò che vogliamo dire e ciò che vogliamo tenere per noi, le convenzioni sociali che come in tutti i melò soffocano le vere intenzioni, i sentimenti che passano attraverso il corpo anche quando le parole cercano di attenuarli.
Solo posizionando lì, in quel punto, questa scena madre che così poco sembra una scena madre, si poteva ottenere un simile risultato: specchiare nelle tragedia di un’altra vita i propri piccoli drammi e le proprie piccole ferite.