Quella di Millennium al cinema è una non-saga, partita prima con una serie di film svedesi dallo scarso successo internazionale, dopo il lancio in grande stile del primo con
Noomi Rapace nel ruolo di Lisbeth Salander, e poi rilanciata daccapo a Hollywood da
David Fincher, con
Rooney Mara nei medesimi panni. Eppure nemmeno Fincher è riuscito a dare a questa trilogia di libri vendutissimi una dimensione così convincente per il pubblico da spingere il secondo film. Ora
Fede Alvarez, in assoluto uno dei registi più interessanti che lavorano ad Hollywood, ricomincia da capo con il quarto libro (ad opera di un altro scrittore rispetto alla trilogia) e una storia totalmente slegata dagli altri.
È quindi un passo indietro, perché ricomincia di nuovo con nuovi attori, ma anche due in avanti perché asciugando la storia e la messa in scena Alvarez riesce a scartare la confusione che regnava negli altri film e trova uno svolgimento decisamente più godibile. Per la prima volta in un film si intuisce cosa ci sia di così interessante in quei libri.
Fede Alvarez è un regista di incredibile minimalismo, in
La Casa (il remake) era stato fenomenale, privo di orpelli e dritto al cuore del genere con una forza che sorprendeva, mentre con
Man In The Dark ha diretto un thriller domestico quasi senza parole e ora, alle prese con una storia decisamente più canonica fatta di svelamenti, persone cacciate, omicidi e un mistero da svelare, tiene bassi i toni e aumenta la godibilità. Con qualche virtuosismo in meno e un’enfasi al minimo centra perfettamente la concentrazione sugli eventi che serve.
Invece di caricare la messa in scena come Fincher, Alvarez la riduce, rimuove il superfluo, non si mette in primo piano e cerca di essere il più rapido possibile, di fatto applica questa produzione da sempre di serie A come un trattamento da film di serie B. Stavolta Lisbeth Salander e le sue imprese da hacker traumatizzata sono decisamente più comprensibili e digeribili, meno introspettive e più concentrato sugli eventi. Non si punta più sullo scenario nordico, innevato e livido ma sulle singole scene, per farle funzionare una dopo l’altra, per essere chiari con la trama. Protagonista non è Lisbeth Salander ma l’intreccio, lei è solo uno degli altri personaggi agiti (per quanto quello principale).
Sebbene
Claire Foy sia la meno “rovinata” delle Lisbeth Salander viste, quasi alla moda (rimane imbattibile
Rooney Mara, sventrata dal trucco e parrucco per essere quanto meno desiderabile e femminile possibile), lo stesso
Quello Che non Uccide le regala i momenti migliori e l’introspezione più decisa tra quelle viste al cinema. Per farlo sacrifica gli altri personaggi ma l’impressione è che in queste storie dense di eventi e meccanismi da spiegare bene in due ore, non ci sia spazio per molto altro.