Roma 2018 - Halloween, la recensione
Stavolta il centro di tutto è Michael Myers, seguiamo lui tanto quanto la sua vittima preferita, Laurie Strode. E in un trionfo di metacinema David Gordon Green perde la paura per strada
Purtroppo l’unico effetto è quello di ridurre il tasso di tensione e paura. Perché nel momento in cui seguiamo Myers lui non è più una minaccia inarrestabile. Quando non lo vediamo ma compare solamente all’improvviso è come se fosse ovunque, incombe e si ha il terrore di vederlo dietro ogni angolo. Al contrario quando lo seguiamo pensiamo che da un momento all’altro possa sbagliare, che la vittima si accorga di lui e questo diminuisce il suo potere spaventoso, riducendolo a quel che è, un maniaco omicida all’opera nella notte di Halloween.
Questa versione con i piedi per terra del mito del primo vero grande slasher movie, l’omicida di baby sitter, è quindi asciugata della vera tensione e non basta qualche efferatezza per restituire la paura. Perché questa non sta mai nell’esito ma nell’attesa di quell’esito. David Gordon Green vuole rompere le regole e farsene gioco ma non riesce a farlo mantenendo il risultato finale. Decide di usare il jump scare (la comparsa di colpo di un rumore forte per mettere paura) ma sempre e solo quando non porta ad una vera minaccia, solo quando è una beffa allo spettatore. Le minacce al contrario si presentano per gradi, non di colpo ma (come scritto), seguendole fino ad arrivare alla morte in una maniera ordinaria, senza la retorica e l’enfasi del cinema ma con un naturalismo fuori posto. Anche per questo l’unica scena efficace del film (quella che coinvolge un sensore di movimento) è la sola che non funziona in questo modo ma in quello classico, nascondendo la minaccia.