Roma 2018 - Halloween, la recensione

Stavolta il centro di tutto è Michael Myers, seguiamo lui tanto quanto la sua vittima preferita, Laurie Strode. E in un trionfo di metacinema David Gordon Green perde la paura per strada

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è un fortissimo sapore di metacinema lungo tutto questo nuovo Halloween. Michael Myers è oggetto di studi e si attendono suoi nuovi omicidi come si attende un nuovo Halloween. Anche lo sceriffo ricorda che per la prima volta Meyers colpì “40 anni fa oggi” come l’uscita del film di cui vediamo spezzoni nei flashback. Il nuovo Halloween rimette in circolo Michael Myers a lungo tenuto in gabbia per il piacere nostro e di alcuni personaggi (si scopre lungo la storia) che vogliono seguirlo per capirlo. E David Gordon Green del resto questo fa, per la prima volta nella saga: segue Michael Myers, non lo fa comparire all’improvviso ma lo accompagna nelle sequenze omicide, mostrando il suo punto di viste e forse (nelle sue intenzioni e nelle parole dei personaggi) l’effetto che quegli omicidi hanno su di lui.

Purtroppo l’unico effetto è quello di ridurre il tasso di tensione e paura. Perché nel momento in cui seguiamo Myers lui non è più una minaccia inarrestabile. Quando non lo vediamo ma compare solamente all’improvviso è come se fosse ovunque, incombe e si ha il terrore di vederlo dietro ogni angolo. Al contrario quando lo seguiamo pensiamo che da un momento all’altro possa sbagliare, che la vittima si accorga di lui e questo diminuisce il suo potere spaventoso, riducendolo a quel che è, un maniaco omicida all’opera nella notte di Halloween.

Nel caso specifico un maniaco evaso dal manicomio criminale proprio nel momento in cui tre generazioni di Strode (la classica Laurie, anziana e agguerrita, la figlia Karen e la nipote Allyson) sono riunite. Stavolta saranno però loro a cacciare lui.

Questa versione con i piedi per terra del mito del primo vero grande slasher movie, l’omicida di baby sitter, è quindi asciugata della vera tensione e non basta qualche efferatezza per restituire la paura. Perché questa non sta mai nell’esito ma nell’attesa di quell’esito. David Gordon Green vuole rompere le regole e farsene gioco ma non riesce a farlo mantenendo il risultato finale. Decide di usare il jump scare (la comparsa di colpo di un rumore forte per mettere paura) ma sempre e solo quando non porta ad una vera minaccia, solo quando è una beffa allo spettatore. Le minacce al contrario si presentano per gradi, non di colpo ma (come scritto), seguendole fino ad arrivare alla morte in una maniera ordinaria, senza la retorica e l’enfasi del cinema ma con un naturalismo fuori posto. Anche per questo l’unica scena efficace del film (quella che coinvolge un sensore di movimento) è la sola che non funziona in questo modo ma in quello classico, nascondendo la minaccia.

E non che nel comparto della costruzione dei personaggi vada meglio. Nonostante fosse ragionevole ipotizzare che l’apporto di David Gordon Green si sarebbe potuto misurare in un’enfasi maggiore sulla storia delle vittime, e quindi una maggiore partecipazione alla vita di personaggi di granito e invece che volatili come gli horror peggiori, la pietra tombale sul film è il fatto che non ci sia nemmeno un personaggio degno di questo nome, a cui si possa credere o per il quale si possa penare. E questo è dimostrato oltre ogni dubbio dalla comparsa (brevissima) di un bambino afroamericano cui una vittima fa da baby sitter. La sua personalità, il carattere dimostrato in pochissime scene e la sua complessità azzerano tutto il resto del film che a quel punto pare una passerella di stereotipi.

Continua a leggere su BadTaste