Roma 2018 - Fahrenheit 11/9, la recensione
Pronto a tutto per accarezzare il pelo del suo pubblico di riferimento Fahrenheit 11/9 doveva distinguersi dalla massa di critiche a Trump per qualità e messa in scena e invece non ne è capace
Fahrenheit 11/9 era atteso come il più scontato dei pamphlet anti-Trump, doveva distinguersi da un coro di critiche verso il nuovo presidente non solo per qualità del lavoro sulle fonti ma anche per qualità di ragionamento e (soprattutto) qualità della maniera in cui queste sono messe in un film.
Decisamente troppo lungo e troppo fiacco, poco concentrato e privo di un obiettivo preciso, questo nuovo documentario di Michael Moore ha invece il sapore di una grande lamentela a più strati sull’essere poco di sinistra della politica americana. Esattamente quel che non erano i suoi film migliori, capaci non solo di andare dritti al punto ma di riuscire anche ad imbastire un immaginario visivo potentissimo che qui è assente. Il lavoro di montaggio è superiore a quello dal vivo e contiene associazioni che oscillano tra il molto scontato (filmati di Hitler con la voce di Trump, una cosa da YouTube) e il molto puerile (un pupazzo di cera di Trump sovraimposto con lui stesso nella medesima posizione). Michael Moore non sembra più capace di dare alle sue indagini sul campo quell’impianto visivo così unico, di creare quell’ibrido tra la tv d’inchiesta fatta in strada e la forza del montaggio cinematografico, è sempre di più un imbonitore che sottomette ogni ragionamento ad una causa sempre più soggettiva e sempre meno unica.