Roma 2017 - I, Tonya, la recensione
Eccessivamente impegnato a far ridere, I, Tonya sacrificherebbe tutto per una battuta mentre la sua protagonista mostra una determinazione fuori dal comune
Gillespie si capisce che vuole realizzare un film che appartiene al genere delle vere storie anni ‘80 e ‘90 raccontate nella loro naturale assurdità, trame ed intrecci credibili solo perché veri, altrimenti troppo implausibili ed idioti per stare in un film. Lo vuole così tanto da usare i carrelli veloci in avanti ad inizio scena di Scorsese e l’ossessione per l’umorismo a tutti i costi di La Grande Scommessa, aggiungendo la passione per la sottolineatura dell’idiozia di Pain And Gain e un po’ di materiale di repertorio.
Così riesce a ricostruire questa storia di bugie e di menzogne, i cui contorni ancora adesso non sono molto chiari ma che gira intorno all’incidente causato alla pattinatrice Nancy Kerrigan, probabilmente commissionato dalla rivale Tonya Harding, sicuramente perpetrato dal marito di lei.
L’obiettivo di I, Tonya però non è cercare la vera versione dei fatti ma, come i film del genere cui appartiene, raccontare il passato come un momento di follia, la realtà come bacino di storie assurde e l’umanità come contaminata dall’idiozia, come se la vita di tutti fosse sceneggiata dai fratelli Coen. Tale è il suo obiettivo che il film è disposto a tutto per un po’ di risate in più. Nonostante sia in piedi come grande veicolo per l’affermazione di Margot Robbie, lo stesso il desiderio di essere commedia e di esserlo con una nobiltà maggiore delle altre, sembra la sua missione: far ridere con classe.