Roma 2017: Una Questione Privata, le recensione

Dal romanzo omonimo i Taviani girano il loro Una Questione Privata, con pochi legami con la letteratura e tanti con il periodo migliore del cinema italiano

Critico e giornalista cinematografico


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C’è tutto il cinema italiano di una volta concentrato in Una Questione Privata, sia quello migliore ed eterno che quello necessariamente superato, non immortale ma solo vecchio.
C’è quella teatralità che affligge moltissimo i nostri film più pretenziosi, ci sono i personaggi che escono ed entrano in scena annunciando da dove vengono o dove andranno, ci sono i contadini dal buon eloquio che parlano un italiano corretto e dicono (testuali parole): “Gli studenti sono tutti un po’ tocchi; noi contadini siamo più centrati” e ci sono anche alcuni vecchi zoom a schiaffo, residuati dagli anni ‘70. Ma c’è anche quel modo di raccontare tipico del miglior cinema italiano, quello che attraverso un pretesto molto semplice spingeva un personaggio attraverso un paesaggio. L’obiettivo della storia sarà alla fine futile ma il viaggio e l’umanità con cui entrerà in contatto costituiranno l’essenza del film, la sinossi del nostro cinema migliore tra il 1942 e il 1965.

In più la versione dei Taviani del romanzo di Beppe Fenoglio del 1967 (fosse stato adattato all’epoca dell’uscita sarebbe stato un lavoro perfetto per Rodolfo Sonego) ha un incredibile fascino romantico che esce dalle soluzioni di linguaggio cinematografico più che dalla letteratura che regge la storia. Una Questione Privata è quindi un film che adatta un romanzo ingombrante ma che in nessun momento ha il sapore della storia di carta che fatica a diventare cinema. Anzi! Il partigiano che viene colto all’improvviso da un ricordo passando davanti ad una grande casa in cui prima della guerra aveva conosciuto il suo amore (un momento fantastico in cui il rumore del vento dei ricordi felliniano si mischia ai dialoghi del presente e ad una musica da ricordo che dal suono capiamo essere solo nella sua testa), e che da quel momento lotta per trovare un fascista da scambiare con il suo amico/rivale prigioniero, compie il classico viaggio attraverso l’umanità da cinema italiano della liberazione.

Come avessero fatto un film in tono con l’ambientazione del romanzo, Paolo e Vittorio Taviani (come sempre hanno scritto in due ma stavolta dirige solo Paolo) girano un’opera al tempo stesso vecchia e (paradossalmente) moderna, in cui la loro idea di cinema si incastra benissimo con il racconto molto semplice e dai tempi stretti di un partigiano che deve correre di plotone in plotone, incontrando così altri partigiani e poi altri fascisti, per salvare la vita ad un amico, mentre i ricordi dell’amore ora lontano non fanno che riportargli alla memoria il fatto che forse proprio quell’amico ha avuto la donna che tanto desidera.

Questo film poteva essere facilmente un delirio psicologico, invece i fratelli tengono tutto a bada, usano il rumore del vento per “chiamare” i ricordi, rallentano il ritmo senza sfociare nella noia e in mezzo a tutto Luca Marinelli aggiunge una recitazione strana, distante, silenziosa e calma. Tanto sono fuori tono tutti gli altri attori, quanto è invece in tono lui. Riesce a convogliare la paura, la rabbia, la passione e la foga con un controllo che non li soffoca, anzi li esalta.
Alla fine quello che esce da questa struttura che pare furiosa, non è assolutamente un film furioso ma uno che con grande temperanza racconta un sentimento lontano come lontano è il tempo in cui è ambientato. Una storia d’altri tempi.

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