Roma 2017 - C'est La Vie, la recensione

Con un controllo e una precisione che hanno del mostruoso, C'est La Vie riesce ad essere la commedia perfetta, quella a cui tutti dovrebbero aspirare sempre

Critico e giornalista cinematografico


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Realizzare un film come C’est La Vie è una delle imprese più difficili in assoluto.

Raccontare di un gruppo di protagonisti elevato (i membri di un grande catering, dai principali fino alle ultime ruote del carro), tutti presi in un unico grande evento (l’organizzazione di un grandissimo matrimonio), tutti con le loro singole storie e contemporaneamente presi da una trama più grande che li associa, tutti con un rapporto particolare con l’altro, spesso tutti in scena insieme. E soprattutto, tutte le singole trame, più la trama generale vengono costruite e seminate nella prima parte, per poi deflagrare ed essere raccolte nella grande e lunga corsa finale, in cui ogni elemento accennato all’inizio e ogni nodo ritorna al suo pettine per una gag, una battuta o una situazione a cui il pubblico può partecipare in pieno, perché ne conosce sempre l’antefatto.

La struttura e il sottogenere sono nati non a caso nell’epoca e nel luogo in cui il cinema era un’industria regolare e organizzata come non è più stato, nella Hollywood degli anni ‘30. Solo in quel momento era possibile produrre con regolarità commedie logisticamente così complesse, che per riuscire richiedono un’esecuzione perfetta in ogni comparto, in cui anche solo uno sbafo manda a monte decine di gag. Per questo vedere Nakache e Toledano riuscire nell’impresa non è diverso dall’ammirare un ginnasta completare un percorso impeccabile o meglio un gruppo di nuotatrici sincronizzate realizzare un numero in perfetta coordinazione dall’inizio alla fine. Fa ridere quindi pensare che il film più noto e più di successo di questi due autori sia Quasi Amici, che in confronto alla perfezione comica, alle risate, al divertimento e alla raffinatezza di C’est La Vie è un corto da laureando alla scuola di cinema.

Qui c’è un gusto per la costruzione della battuta e per l’accumulo di situazioni che è il vero segreto della commedia sofisticata, c’è un equilibrio narrativo che arriva ben presto a far sì che anche le situazioni più fiacche godano della vivacità del resto del film, trascinando tutta la messa in scena in un fiume di umorismo in cui non stona anche il sentimento.
Come una compagnia circense il catering protagonista di tutto ha un direttore, un uomo vessato dai problemi degli altri e dai suoi, incaricato di risolvere tutto e pronto con una soluzione per ogni cosa, un vero collettore di ogni ansia e problematica, praticamente un regista. Ma se nel catering ognuno ha il suo ruolo specifico, così anche ogni attore qui ha un’economia ben determinata, ognuno non ha solo la propria parte ma il compito di contribuire al risultato finale con un tipo ben chiaro di umorismo (quello fisico di Gilles Lellouche, quello di facce del boss Jean-Pierre Macri, quello di parola del fotografo Jean Paul Rouve e quello sublime di situazione del nuovo imbranatissimo aggiunto alla brigata Alban Ivanov).

È ammirando film come questo che si capisce come il cinema industriale sia un’impresa collettiva diretta da un’intelligenza unica, che si comprende quale sia esattamente l'arte della commedia e cosa sia in grado di fare chi la padroneggia. Billy Wilder negli anni '50, Howard Hawks nei '30 e ora è possibile finalmente inserire nell'elenco questo film di Nakache e Toledano, una perla di esecuzione, pianificazione e lettura del mondo attraverso la risata. Un matrimonio come un microcosmo umano di frustrazioni e difficoltà (il titolo originale è "il senso della festa"), la rappresentazione più divertente, grottesca e quindi significativa della fatica di vivere e di come il caos che ci circonda destinato a vincere sempre. Addirittura nella (teorica) celebrazione dell'amore che è un matrimonio C'est La Vie inserisce diverse storie sentimentali tutte disfunzionali, tutte frustranti tranne una, la più casuale, assurda, imprevedibile e inspiegabile.

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