Roma 2017 - Borg McEnroe, la recensione

La rivalità per eccellenza del tennis a cavallo tra i '70 e gli '80 diventa in Borg McEnroe una sfida western tra due valori assoluti e cristallini

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono dei colpi che grazie al sound design esagerato percepiamo essere fortissimi all’inizio di Borg McEnroe, li spara Bjon Borg senza che intuiamo bene la partita, l’azione o il contesto. Contano solo le martellate, perché è quello che sarà questo film per buona parte: la definizione di due atleti come interpreti di due modi di intendere la vita (il martello e la lama, dice un commentatore proprio all’inizio per introdurli). Era quello che i media avevano deciso sarebbe stata la narrazione della loro sfida, ed è quello che Janus Medz Petersen decide debba essere la sua lettura della grande rivalità. La freddezza contro la rabbia in due uomini molto simili, che nel diventare atleti hanno affrontato le stesse difficoltà ma reagito in maniere diverse per via di due figure paterne diverse. Il padre biologico per McEnroe, quello putativo, cioè l’allenatore, per Borg. Due facce della stessa medaglia, cioè il western.

Forse anche per questo non manca di esagerare la situazione Borg McEnroe, lo svedese preda dei suoi (veri) rituali da torneo e della superstizione, gelido in qualsiasi situazione possibile, e l’americano tutto hamburger e metal, caos e improvvisazione. Sempre come nel western il lungo duello sembra avere senso solo se a scontrarsi sono le personificazioni di valori che esistono già nella società. Così Borg e McEnroe non funzionano molto come personaggi ma diventano essenziali al film quando esprimono un modo di essere. È un po’ ridicola la backstory di Borg come la racconta il film e non è chiarissimo il rapporto con la famiglia di McEnroe, né quello con i rivali e amici, ma è molto forte il primo momento che sono nella stessa stanza.

Tuttavia, ogni perplessità sul film scompare nel lungo duello finale, lo zenith di un film che non fa che parlare d’altro, uno che McEnroe potrebbe accusare della stessa cosa di cui accusa giornalisti e presentatori: “Perché mi chiedete sempre di Borg? Pensavo fossimo qui per parlare di tennis”.
Invece nella grande finale di Wimbledon a cui Petersen ci conduce facendoci seguire tutte le partite intermedie, lo stato di forma, le possibilità e il carico di aspettative su ognuno (Borg aveva giocato peggio del solito, McEnroe molto bene), la narrazione finalmente sembra girare alla perfezione.

Lo svolgimento della vera partita di suo è carico di movimenti e colpi di scena molto filmici, attimi eccezionali che il film cui abbiamo assistito fino a quel momento carica ha caricato a dovere, Petersen è bravissimo a sfruttarli e giocare bene sugli alti e bassi, seguire le paturnie di entrambi e il doppio dramma (là dove solitamente negli scontri sportivi seguiamo solo quelli di uno dei contendenti), parteggia per tutti e due, creando una tensione palpabile.
È semmai la resa del gesto sportivo di una disciplina difficile da filmare a non essere propriamente a livello. Petersen non fa nessuna scelta e usa tutti i tipi possibili di inquadrature, da quella televisiva a quella laterale, dai primi piani, alle inquadrature zoommate da lontano, i totali, i dettagli e anche il filo di piombo. Non sempre gli interessa mostrare bene cosa accada, il più delle volte si concentra su un gesto, un tic o una reazione. A sorpresa, questo melange funziona molto bene, svilisce il gesto ma esalta l’andamento della storia.

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