[Roma 2016] Kubo e La Spada Magica, la recensione
Pieno di idee originali ma fallace proprio lì dove punta di più, sull'azione, Kubo E La Spada Magica conferma tutta la bontà dello studio Laika
Che bravi allo studio Laika! Non importa che Kubo e la Spada Magica non sia il loro miglior film (Coraline e ParaNorman sono decisamente superiori per creatività, dialoghi e capacità di dare ritmo alle idee originali), nè brilli per rapidità e coinvolgimento, questo cartone riflessivo e intimo, molto sentimentale nonostante l’avventurosità, è capace di mostrare sprazzi di grandezza. Non è nemmeno più la stop motion (contaminata con tanta computer grafica) il loro segreto ma una capacità di montare e immaginare una storia su strutture tutte originali.
Su questo scheletro inusuale per il cinema arriva poi la narrazione vecchio stampo. Kubo è un cantastorie tramite origami, cioè con un salto di metacinema il protagonista di una storia in stop motion racconta egli stesso storie in quella che a tutti gli effetti è una forma primitiva di stop motion. E proprio le sue storie, sempre prive di finale, sono la più chiara delle allegorie per il quest: trovare una fine alla propria epopea.
Gli strumenti migliori per narrare di un ragazzo che deve superare il proprio retaggio, uccidere il nonno e guadagnare un rapporto sereno con la morte dei propri genitori. Che non è poco per un cartone animato.
Un guerriero che per portare avanti la sua emancipazione deve affrontare diversi scontri, indossare armature, imbracciare spade e alla fine combattere con e le due corde del titolo originale (Kubo and The Two Strings), ha davvero troppa poca dinamica, troppo poco movimento, troppa noia proprio nelle scene d'azione con cui dovrebbe portare avanti la storia.