[Roma 2016] Into The Inferno, la recensione

Una costruzione gigantesca intorno ai tre vulcani attivi del pianeta, per poter filmare la Corea Del Nord. Into The Inferno è un viaggio a sorpresa

Critico e giornalista cinematografico


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Per Werner Herzog la risposta è sempre nel pianeta.
Nei paesaggi sorprendenti, negli angoli meno esplorati e nelle manifestazioni più estreme della natura: i fiumi più grandi, le montagne più alte, le profondità meno sondabili, le caverne più antiche o come in questo caso i vulcani attivi. Tre in tutto il mondo e lui li va a trovare per filmarne la meraviglia ma anche per raccontare cosa accada agli uomini che vivono intorno a questi luoghi, cioè come la natura nel manifestare il proprio primato influenzi la cultura degli esseri umani che gli vivono intorno. Ed è forte come ad un certo punto lo stesso Herzog sia affascinato dalla figura di due documentaristi che prima di lui hanno filmato i vulcani da così vicino che ci sono morti (ma le loro immagini, inserite in Into The Inferno, sono anche più belle di quelle di Herzog, che pare saperlo bene).

È un tema herzoghiano perfetto eppure è uno specchietto per le allodole.
Tutta questa costruzione teorica, la voglia di guardare gli uomini, le storie, le superstizioni e i culti nati attorno ai crateri attivi, ma anche proprio di guardare dentro l’abisso di lava è tutta una scusa. Into the Inferno nasce perché Herzog è venuto a sapere tramite il vulcanologo Clive Oppenheimer che sarebbe stato possibile filmare un vulcano (e quindi la vita intorno ad esso) in Corea Del Nord, forse l’unica possibilità per lui di filmare l’infilmabile, il luogo inconoscibile per antonomasia del nostro tempo, quello che lo stesso regista definisce con l’asciuttezza e la pregnanza che gli appartengono: “L’unico posto al mondo che non possiamo che vedere attraverso le immagini con cui decide di mostrarsi a noi”.

L’occasione è troppo succosa per il cineasta avventuriero, andare a fare cinema là dove è impossibile per uno straniero, essere uno dei pochi a dare una propria visione del posto che nessuno filma. Così va e gira, senza un produttore e senza un progetto, poi, una volta rientrato dalla Corea trova un’idea e propone a Netflix un film tutto intorno a quel vulcano e agli altri due attivi per rendere tutto coerente.
Accade dunque che, per quanto come sempre Herzog trovi uomini e storie capaci di stupire, Into The Inferno sia un documentario abbastanza ordinario. Anche la storia del popolo che adora un soldato americano paracadutatosi nel loro villaggio decenni prima (John Frum) e che ritiene tornerà a portargli beni di consumo come carne in scatola e cioccolata, è trattata rapidamente e superficialmente, nonostante sembri uscita da un albo di Topolino scritto da Alan Moore.

Ciò che conta in Into the Inferno, è l’inferno della Corea Del Nord, le immagini desolate, il senso di solitudine che Herzog mostra e racconta, il movimento tra culto della personalità dei leader e il sistema para-religioso sviluppato intorno ad essi. Mostrando cose mai viste (sculture umane che sembrano quelle di The Witness) assieme ad altre più note (i giochi di massa in cui si creano immagini incredibili mettendo all’opera decine di migliaia di persone) che lui definisce “una forma d’arte unica al mondo e irreplicabile”, Werner Herzog gira la cosa che più si può avvicinare ad un suo documentario sulla Corea Del Nord. Ed è una dimostrazione di come di nuovo, anche osservando una civiltà, questo artista letterario non riesca a fare a meno di cogliere il senso che a noialtri sfugge e che come lo faccia mettendo i personaggi in comunicazione con il paesaggio.

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