Roma 2014 - The Salt of the Earth, la recensione

Stupendo il documentario di Wenders dedicato al fotografo brasiliano Sebastião Salgado. Presentato a Wired Next Cinema dentro il Festival di Roma 2014

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Wenders torna a immaginare cosa ci sia dietro un creatore di immagini. Lo fece in passato con Nicholas Ray e più recentemente con Pina Bausch.
L'oggetto del suo bellissimo nuovo documentario, diretto insieme a Juliano Salgado, è Sebastião Salgado, papà del coregista. L'abbiamo visto nella sezione Wired Next Cinema del Festival di Roma 2014.

Qual è il segreto dietro l'autore di quelle foto magnifiche della miniera d'oro della Serra Pelada che il regista tedesco ammirò come tanti di noi a una mostra fotografica? Chi è l'uomo che scattò la foto di quella donna misteriosa che Wim Wenders acquistò negli anni '90?

Il regista di Alice nella città (1973) e Il cielo sopra Berlino (1987) lo conosciamo: prende la sua curiosità, che si tratti di musicisti cubani (Buena Vista Social Club) o primi blues men come Willy Dixen e J.B. Lenoir (L'anima di un uomo), e se la mette dolcemente in tasca incamminandosi verso un nuovo viaggio insieme a noi dove la curiosità è più importante di una borraccia d'acqua. Parla poco Wenders e ascolta molto. Uomo assai saggio.

Ed ecco così aprirsi davanti ai nostri occhi la vita di Salgado, un ragazzo che ammirava il mondo dalla sua rigogliosa fazenda di famiglia in Brasile per poi decidere, dopo i primi stentati studi di economia ("Sebastião? Non studiava mai" ricorda subito il padre), di affrontarlo quel mondo. Con il corpo atletico, due belle scarpe resistenti, una moglie meravigliosa al fianco e una macchina fotografica.

Il documentario su Salgado è il documentario su un grande artista che è stato, e rimane, uno di noi. E' per questo che è bellissimo e perfettamente coerente con gli ideali politici e il modo di porsi di questo artista pienamente umanista e sinceramente interessato al prossimo.
Limpida l'analisi del ciclo della Serra Pelada (per noi è: Bosch + Dorothea Lange), appassionante la parte in cui i coniugi Salgado, insieme, decidono per il grande salto nel buio. Sebastião molla una carriera garantita come economista, si compra un kit fotografico professionale e decide, con il supporto della consorte Lèila, di diventare un fotografo sociale, ovvero un uomo che gira per il mondo immortalando comunità, terre, condizioni sociali, guerre. Sempre cercando di esplorare l'altro e rivelandolo in tutta la sua fiera diversità rispetto al suo punto di vista di fotografo. Geniale. E faticoso. Salgado quando parte per uno dei suoi reportage scompare dalla famiglia (con somma mestizia dei due figli che da piccoli non lo vedranno mai), si mette a camminare, si fa crescere una barbona degna di Gandalf, sta fuori (in tutti i sensi) per anni ed ecco che vengono fuori capolavori come Un Uncertain Grace (1992), Workers: Archaeology of the Industrial Age (1993), The Other Americas, Migrations. New York, NY (2000), Sahel: The End of the Road (2004) e Africa (2007).

In Africa... il patatrac. Salgado fotografa il frutto dei massacri della guerra civile in Ruanda e questo... lo distrugge. Troppi orrori, troppa morte, troppi corpi senza vita, umiliazioni, torture, crudeltà, odio. Salgado spesso deve fermarsi per piangere prima di scattare l'ennesima foto di disperazione e degrado umano. A quel punto senti chiaramente, se conosci Wenders, la curiosità del regista tedesco farsi totale identificazione con gli struggimenti interiori del fotografo brasiliano. Fino a che punto noi possiamo immortalare il mondo?
Vi ricordate il Fritz del wendersiano Lisbon Story (1994)? Reincarnazione del protagonista de Lo stato delle cose (1982), quel personaggio di regista decise di gettarsi, letteralmente, la videocamera alle spalle per non avere più l'onere mentale e morale di scegliere cosa inquadrare del mondo e soprattutto perché.
Il fotografo sociale Salgado muore in Ruanda perché muore la sua fiducia, e la sua speranza, nel genere umano. E' il momento del documentario in cui senti di più l'amore e la comprensione di Wenders (mai in campo, mai pronto a sfruttare l'occasione per un abbraccio compassionevole a favore di macchina; bravissimo) per questo piccolo grande brasiliano camminatore, osservatore e gentile esploratore del nostro disgraziato e meraviglioso pianeta.
Ma per fortuna... c'è Lèila.
La donna, la compagna, la collega, la moglie, la madre, la motivatrice. Lèila salva Salgado un'altra volta. Quella definitiva.
E' impossibile, se avete un cuore o anche una macchina fotografica, non commuoversi nel finale.
Dall'uomo all'albero, dalla morte alla vita, dal cuore di tenebra di noi esseri umani all'innocenza del mondo animale.
Lèila gli consiglia di passare a fotografare la fauna del globo e Lèila gli consiglia di innestare nuovi alberi in tutta la sua fazenda di famiglia vittima della siccità e ormai terreno morto rispetto a quella giungla pluviale dalla quale il Salgado bambino osservava eccitato l'orizzonte infinito dall'alto della sua collina preferita. A differenza del povero Giacomo Leopardi di Martone... lui quell'infinito lo avrebbe provato a raggiungere. Fino all'esaurimento nervoso figlio del Ruanda. Ma non bisogna mai mollare.
Bisogna piantarla di essere depresso e cominciare a piantare qualche albero.
Ed ecco che Salgado passa dall'essere un Robert Capa in piena depressione a un arzillo J.R.R. Tolkien che passeggia tra i suoi alberi toccandoli e sentendo in loro il passato e il futuro.
Il potere dell'albero. Lo sostiene anche Le ali della libertà di Frank Darabont.
Come si fa a non amare l'ennesimo atto d'amore all'amore della visione di Wim Wenders?
Vedere, filmare e fotografare il mondo è un modo di conoscere noi stessi.
Ed è faticoso e richiede un'idea e uno sguardo interiore prima di poter produrre una visione esteriore.
Questo documentario ce lo ricorda con precisione, semplicità, onestà e grande fluidità narrativa.
Bellissimo.

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