Roma 2014 - La spia, la recensione

Chiude la sezione Gala del Festival di Roma 2014 La spia di Corbijn con l'ultima grande interpretazione di Philip Seymour Hoffman. Un'ottima spy story.

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La vita è fatta di "fuck".
E anche il cinema, ovviamente. Come lo dici, quando lo dici, chi lo dice. Soprattutto in versione originale.
Robert Redford ne lancia uno sottovoce, stremato ma lunghissimo ("Fuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuuck") alla fine di All is Lost - Tutto è perduto (2013). Jordan Belfort e soci ne sparano ben 506, a mitraglia come piace a Scorsese, in The Wolf of Wall Street.
Anche la filmografia di uno dei più grandi registi della Storia del Cinema come Stanley Kubrick si chiude, pensate un po', con un "fuck".

La parola si trova alla fine della risposta che la gallerista d'arte Alice dà al marito medico Bill circa quello che lei pensa debba essere il futuro delle loro azioni di coppia. Eyes Wide Shut termina con un "fuck". I coniugi Harford, secondo l'Alice di Nicole Kidman, devono farlo al più presto possibile. Se tra loro o coinvolgendo altre persone... questo Kubrick non ce lo fa capire molto bene. E' l'ennesimo finale aperto a varie interpretazioni, in questo caso del concetto di "fuck", che il Maestro ci lasciò poco prima di andare via per sempre.

La spia di Anton Corbijn, presentato nella sezione Gala del Festival di Roma 2014, è l'ultimo film interpretato da Philip Seymour Hoffman. L'attore statunitense è morto nel suo appartamento di New York per overdose il 2 febbraio 2014.
Occhio al "fuck" anche in questo caso. E' fondamentale per capire il suo personaggio e il film.
E sarà un "fuck" (anzi due) ansimato, asmatico, rabbioso, solo, disperato, da scoppio delle arterie e figlio di bronchi martoriati da milioni di sigarette Buratti fumate e strafumate nelle lunghe ore di paziente lavoro.
Philip Seymour Hoffman è Günther Bachmann. Professione: spia. E' l'uomo al centro dell'omonimo film diretto da Anton Corbijn e tratto dal best-seller scritto dal maestro spy John Le Carré nell'ormai lontano 2008.
Siamo ad Amburgo e il biondo corpulento quasi albino tabagista (non c'è quasi un'inquadratura senza che fumi) Günther Bachmann è a capo di una piccola cellula dei servizi segreti tedeschi alla fine degli anni 2000 quando l'America è leggermente meno brutale con le "rendition" ma non abbassa certo la guardia in Europa contro la guerra al terrore globale dei fondamentalisti islamici scaturito dopo il drammatico attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre 2001.
Günther è pieno di delusioni, ferite, sensi di colpa (qualcosa è successo a Beirut e sembra sia stata colpa sua) ma ha un'idea tutta sua sulla strategia da tenere. Un'idea che lo tiene ancora in vita. Lui vuole trovare dei finanziatori insospettabili di Al-Qaeda e costringerli a collaborare con lui per arrivare ai veri pesci grossi. Come nel magistrale La talpa (2011) di Tomas Alfredson, film di cui questa bella produzione è chiaramente figlia, i nemici di Günther saranno quasi più tra i suoi colleghi tedeschi (c'è uno che lo odia) per non parlare di una fredda americana della Cia (Robin Wright Penn) che non con i terroristi stessi, di fatto una presenza impalpabile per tutta la pellicola.
Il film di Corbijn sono 121 minuti molto ben articolati e filmati con dialoghi intelligenti e mai troppo espositivi della trama, una palette cromatica tra il marrone (le acque torbide dei canali di Amburgo da cui emerge il MacGuffin umano che metterà in moto tutta la storia) e il giallo neon, la squadra di spie di Günther (affiatati, simpatici, affettuosi con il capo) e il tentativo di arrivare a un finanziatore di Al-Qaeda senza rompere troppe uova in città.
Lui vuole agire con calma, pazienza e per un progetto a lungo termine.
Altri vogliono sbattere subito il terrorista in prima pagina fottendosene degli effetti collaterali che verranno scatenati da un interventismo troppo brusco.
Günther a questo punto combatterà una guerra civile interna. Da una parte lui, dall'altra i suoi colleghi nemici.
E in mezzo? Un caso investigativo figlio del caso. Un profugo mezzo-russo-mezzo-ceceno in cerca di una valigia di soldi (Grigoriy Dobrygin), un banchiere con anima (Willem Dafoe), un'avvocato sinistrorsa (Rachel McAdams), un informatore roso dal senso di colpa (Mehdi Dehbi).
Riesce la produzione a rendere credibile un cast di attori americani nel ruolo di tedeschi? Assolutamente sì. Bravissimi.
Accanto a Seymour Hoffman nei panni dal sapore di tabacco di Günther troveremo la magnifica Nina Hoss de La scelta di Barbara, una vera tedesca del cast insieme a Daniel Brühl (giovane aiutante di Günther) e Rainer Bock (acerrimo nemico interno del nostro protagonista).
Hoffman? Saremo retorici ma: come faremo senza di lui d'ora in poi?
La sua prova è così intelligente, calibrata e perfettamente coerente con le frustrazioni del suo personaggio.
Günther riesce a tenere tutti i suoi demoni interiori a bada solo grazie alla pervicace pazienza con cui riesce a spiegarsi il mondo.
La sofferta esistenza di solitaria spia senza vita sessuale (ci sarà un bacio, ma finto per non attirare l'attenzione come in Notorious di Hitchcock), con due o tre note di Bach strimpellate di notte al pianoforte, è giustificata solo in base al piano preciso che lui ha in testa e che da metà film è chiarissimo anche a noi e a tutti i personaggi che Günther riesce a convincere: l'avvocato, il banchiere, l'informatore traditore, forse anche la collega fredda della Cia.
E allora quella sua imprecazione sarà anche la nostra. Perché insieme a Günther, ai suoi piani e alla sua speranza se ne va via anche un attore semplicemente sublime.
Fuck.

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