Roma 2014 - Soul Boys of the Western World, la recensione

Presentato nella sezione Gala del Festival di Roma 2014 ecco il ritorno degli Spandau Ballet Soul Boys of the Western Boys. Un documentario promozionale.

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Avevano sempre sognato di diventare delle popstar così come Henry Hill aveva sempre desiderato essere un gangster fin dall'inizio di Quei bravi ragazzi (tra parentesi: il film preferito del loro cantante).

Di cosa stiamo parlando? Di Soul Boys of the Western World, documentario su un mitico gruppo pop anni '80 presentato nella sezione Gala del Festival di Roma 2014.
Erano gli Spandau Ballet ovvero cinque ragazzi inglesi di Islington, Londra, abili nel guidare la transizione dal punk al movimento new romantic degli anni '80. E amavano il soul.

Gary Kemp (chitarra, tastiere), Martin Kemp (basso), Tony Hadley (voce), Steve Norman (sax, percussioni, chitarra) e John Keeble (batteria).
Nell'ordine: la Mente, il Bello numero 1 (fratello della mente), il Bello numero 2, il Simpaticone Biondo, il Rozzo.
Il documentario diretto dalla regista George Hencken ce li racconta con un taglio più promozionale che conflittuale visto che l'obiettivo dichiarato è rivendere il gruppo pop per un nuovo tour mondiale già bello e pronto per il 2015 (ce lo ricordano a inizio film con una chiara schermata pre-titoli di testa con tappe e date del nuovo giro del mondo).
Quindi il gioco è chiaro: non aspettatevi Metallica: Some Kind of Monster di Berlinger e Sinofsky, il dittico in contrapposizione La grande truffa del rock'n'roll (1980) e Sex Pistols - Oscenità e furore (2000) di Julien Temple o l'ultimo, notevole, Marley (2012) di Kevin MacDonald. Qui la promozione vince sull'emozione e la noia spesso e volentieri fa capolino proprio perché si sarebbe potuti andare molto più in profondità nelle dinamiche musicali e professionali interne al mitico gruppo british.
Bello l'inizio sulle origini sociali dei cinque: famiglie inglese piccolo borghesi entusiaste di dare a quei marmocchi nati tra il '59 e '61 del '900 un futuro postbellico più sereno e colorato rispetto a dolori e fatiche di mamma e papà. Stesso quartiere (Islington), stessa scuola (Dame Alice Owen's School), stessa voglia di sfondare e divertirsi conoscendo già molto bene i meccanismo dello show biz musicale e i luoghi da frequentare (i locali di Soho Blitz e Billys) per incontrare e abbracciare le mode e i personaggi che contano.
La loro è una generazione cresciuta con la televisione (Top of the Pops presentato dal famigerato Jimmy Savile è un appuntamento fisso) e con una consapevolezza profonda di come l'industria del rock sia cresciuta e si sia trasformata da Elvis, ai Beatles, a Dylan, Bowie e Sex Pistols.
Troppo veloce questa prima parte per gli appassionati di musica. Avremmo voluto seguire più da vicino quei ragazzi che, spinti dall'energia e ambizione del leader Gary Kemp, cambiano componenti e una marea di nomi e stili musicali dai Cut, ai Makers, ai Gentry prima di approdare al misterioso e affascinante marchio Spandau Ballet, di origine tedesca e non lontano dal gioco postmoderno che aveva portato Ian Curtis a scegliere un nome collegato al nazismo per i suoi problematici Joy Division.
Poi, dal primo grande successo commerciale con il terzo album True del 1983, ecco che il documentario della Hencken si sgonfia, scivolando sempre di più nell'ovvio e nella banalità anche grazie a eccessive ripetizioni in voice over in cui tutti e cinque gli Spandau parlano solo e sempre e comunque di due cose: 1) quanto fosse importante per loro avere un successo commerciale dietro l'altro 2) come fosse importante per loro la possibilità di fare tour mondiali.
Fine.

Le immagini d'archivio sono tante, curiose (divertente vedere Tony Hadley dimenarsi in t-shirt da ragazzino prima di assumere il look da azzimato dandy marchio di fabbrica del gruppo) ma mai eccessivamente significative.

Il punto di vista principale è sempre quello di Gary Kemp, padre padrone del gruppo e uomo sicuramente brillante e sofisticato.
Molto più interessante, dal punto di vista visivo, l'episodio della serie tv inglese nata nel 2009 Video Killed The Radio Star in cui Kemp parla della rivoluzione videoclip che vide gli Spandau in pole position accanto al regista pioniere del video musicale Russell Mulcahy, incredibilmente assente nel lavoro della Hencken. Perché manca il nostro amato regista di Highlander (1986) in questo doc?
La seconda parte, quella del declino, dei litigi e delle cause in tribunale (le vince tutte Kemp contro il resto del gruppo), è estremamente superficiale. Il conflitto, come digitavamo, viene messo in cantina per un gran finale tutto a base reunion ovvero: "Comprate i biglietti perché gli Spandau Ballet partiranno per un nuovo lungo tour nel 2015!". Come se ce lo fossimo scordato.
Gary Kemp ha anche il coraggio di dire in macchina che molto spesso le reunion hanno l'unico ed esclusivo obiettivo di tirare su un po' di soldi.
E questa volta no? Considerato soprattutto che lui, la Mente, non è riuscito a diventare nel tempo un attore affermato, insieme al fratello Gary, dopo l'exploit con il gangster movie The Grays - I corvi (1990) di Peter Medak.
Insomma... chi erano gli Spandau Ballet? Dei ragazzi che volevano vestirsi, avere successo e imporre eleganza, melodia e romanticismo dopo la rabbia fine a se stessa del punk.
Bob Geldof litigava con Margaret Thatcher a proposito dell'iva mentre gli Spandau Ballet pensavano al fatto che il Live Aid (tirato su da Geldof a scopo benefico) fosse un mega concerto a cui non potevano certo mancare per via della copertura mediatica.
Questo emerge dal documentario di George Henken.
Oltre alle date dei concerti programmati per il 2015, ovviamente.

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