I venti anni nella vita di Paul che
Mia Hansen-Løve ha deciso di raccontare in
Eden sono quelli tra la maggiore età e l'essere adulto, dai 18 ai 38 circa, dal sogno di fare il DJ nella scena garage parigina (la medesima dei Daft Punk che nel film compaiono ovviamente interpretati da due attori) fino all'esigenza di equilibrio nella propria vita. Non c'è molto altro in questo film da due ore e 10, come capita ai film che raccontano un momento nella vita di un essere umano le svolte e i rivoli della trama sono quelli che appartengono alle esistenze di chiunque, drammi e gioie che possono essere straordinarie solo per chi le vive. Su tutto ciò
Mia Hansen-Løve getta una fantastica luce autunnale, per donare ad ogni momento l'impressione che nessuno sforzo sia mai sufficiente e che le aspettative per un grande domani siano sempre superiori alla realtà.
Il risultato è un film dotato di una forza particolare, datagli dalla sua calma, non è furente come La vita d'Adele, non corre come un fiume ma si muove poco come un lago, alla stessa maniera in cui Paul sembra subire tutto mantenendo sempre la stessa espressione, un'apatia continua che nasconde le proprie dichiarate aspirazioni. Si riempie di cocaina ma non diventa un vero drogato, si batte per diventare un grande DJ ma sembra non emergere mai, cerca un equilibrio sentimentale ma rigetta ogni donna con cui vive. Insomma Eden (dal nome di una fanzine musicale che si vede all'inizio) non fornisce risposte chiare e nette ma dissemina il suo racconto di vita di piccoli indizi e soprattutto ai fatti e agli eventi "significativi" predilige la creazione di un tono narrativo. C'è nel film una porzione consistente di una vita raccontata con un terribile disincanto verso tutto ciò che potrebbe andare bene. Come la musica dei Daft Punk che arriva tre volte nel film, all'inizio, in mezzo e alla fine, la vita di Paul sembra essere alla loro ombra, mai così famoso, mai così stimato e costretto a sentire le loro hit e alla fine addirittura ad innamorarsi con una loro love song.
Il segreto di questo film sta proprio nel suo pacato incedere capace di non sconfinare mai nel noioso, nel prolisso o nel ridondante (rischio dietro l'angolo vista il correre in circolo della vita di Paul), saper evitare il film generazionale tenendo la scena della club culture francese sempre sullo sfondo per concentrarsi su qualcosa di più universale. In questa vita normale e ordinaria c'è la forza straordinaria di uno sguardo e un tipo di cinema che riesce a portare lo spettatore ad empatizzare non per l'eccezionalità ma per l'umanità manifesta. Peccato che dopo
Boyhood sia ormai inaccettabile guardare un film che si svolge in venti anni senza che gli attori invecchino seriamente ma solo con qualche trucco, specie se come in questi casi lo scorrere del tempo è un peso sulle spalle del personaggio, una mannaia che lo allontana di anno in anno dal raggiungere i propri traguardi o la vita che desidera. Poter scorgere meglio l'influsso del tempo sul suo corpo sarebbe stato fantastico.