Roma 2014 - Angels of Revolution, la recensione

Dopo due film sui Mari, il regista Fedorchenko ricorda i Khanty del fiume Ob. Il suo Angels of Revolution è presentato al Festival di Roma in Cinema d'Oggi

Condividi

E dopo i Mari (citati anche qui) ecco i Khanty.

Siamo nel 1934 e l'Unione Sovietica non può certo permettersi che i due popoli dei Khanty e Nenets si rifiutino di aderire agli ideali rivoluzionari lassù a due passi dalla lontana Siberia.

I Khanty adorano una Dea Gatta, non ne vogliono sapere di Stalin e allora ecco che è fondamentale mandare l'eroina Polina (fin da piccola stupì i suoi genitori con incredibili doti da pistolera) a persuaderli ad aderire ai dettami della Madre Russia. Polina mette in piedi la sua squadra (con lei vuole: uno scultore, un compositore, un cineasta sosia di Sergej M. Ejzenštejn, un architetto e un regista teatrale) e parte verso le regioni del fiume Ob, non troppo distanti da quel Lago Kenozero la cui eccentrica comunità è stata raccontata dal Končaloskij del Leone d'Argento alla regia dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia The Postman’s White Nights.

E' un momento in cui affermati registi russi riflettono e realizzano film sul rapporto tra il potere centrale e le periferie umane e sociali della Russia. Chi con maggiore voglia di trovare una conciliazione (Končaloskij), chi meno (Fedorchenko).

Torniamo alla missione della bella Polina dagli occhi verdi e deciso taglio di capelli a caschetto. Letta così la trama del nuovo film di Aleksey Fedorchenko potrebbe sembrare un film di guerra qualsiasi ma sappiamo bene che nelle mani del brillante regista di Silent Souls e Le spose celesti un ordinario war movie può trasformarsi in una serie di siparietti colorati estremamente vivaci e divertenti.

Il viaggio dei sei compagni verso i Khanty c'è tutto ma ci sono anche mille digressioni nei loro amori, sconfitte, ricordi di infanzia, dubbi, ideali artistici. La macchina di Fedorchenko pone con grande semplicità personaggi e oggetti al centro di inquadrature fisse che attraverso stacchi rapidi al montaggio si susseguono formando tanti piccoli episodi della durata di 3-4 minuti l'uno. Viene in mente, per la semplicità della regia e la libertà narrativa, il Buñuel de Il fantasma della libertà, mirabile film che si chiudeva con il primo piano di uno struzzo. Qui ci sono gatti divini che vivono su un'isoletta, bambini procioni ("Procioni! Procioni!" il film si apre così; buffo collegamento al momento stardom di Rocket Racoon ne I guardiani della galassia) e granchi giganteschi da divorare in riva a un lago.
Il film è spensierato, soleggiato, ricco dei colori dell'arcobaleno (come Le spose celesti), divertente e mai e poi mai noioso.

Ce la faranno Polina e i suoi scombiccherati amici a convincere i burberi Khanty ad abbracciare Stalin e l'arte costruttivista (di fronte a dei pannelli di figure astratte, i Khanty si lanceranno in commenti ironici degni di Woody Allen)?
Si chiameranno pure Khanty ma questi fieri adoratori della Dea Gatta non sembrano così distanti, per vestiti e attitudine pagana, a quel popolo scomparso dei Mari caro a Fedorchenko e collocato un tempo in Europa centrale, tra Russia e Finlandia.

Il film si chiude con la "yugra" (i bimbi Khanty vengono portati in Russia per essere convertiti in fasce) del passato e con il frutto della yugra del passato... nel presente.
La conclusione per Fedorchenko è chiara: le tradizioni sono dure a morire così come l'orgoglio di popoli testardi e autonomi come i Khanty.
A buon intenditor moscovita... poche parole.

Continua a leggere su BadTaste