Roma 2014 - Andiamo a quel paese, la recensione

Addormentato su standard da commedia paratelevisiva Andiamo a quel paese soffoca la forza di Ficarra e Picone, gli unici di tutta la produzione ad avere idee

Critico e giornalista cinematografico


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Ci sono due realtà incontrovertibili riguardo l'ultimo film di Ficarra e Picone. La prima è che si tratta di una commedia girata con la medesima amara desolazione di intenti della media di quelle dei comici televisivi trasferiti al cinema, produzioni in cui a nessuno interessa fare un buon lavoro e tutti lavorano replicando i clichè del proprio mestiere con perizia e cura a livelli televisivi; la seconda è che il duo siciliano non solo fa più ridere della media ma ha anche un'idea di comicità non cretina (e non certo da oggi).

Nel film portano avanti il loro tipico sovvertimento per il quale ripudiano come possono il lavoro, l'impegno e la correttezza, una versione aggiornata del classico ritratto impietoso in stile Sordi, quello per il quale si replicano i personaggi peggiori fedelmente, senza condannarli nella sceneggiatura ma esponendone la ridicolaggine. Non vogliono impegnarsi e iniziano a radunare anziani per estorcergli la pensione, rappresentando una generazione che obbliga l'altra a mantenerla, cioè il capovolgimento del principio per il quale i poveri giovani d'oggi devono essere mantenuti dai genitori.

Certo il Andiamo a quel paese è molto tirato per i capelli, imbastisce un paio di storie d'amore una più convenzionale dell'altra (letteralmente, una delle due ha una cretineria di fondo che le dà una parvenza d'originalità) per dare una motivazione diversa dal guadagno ad uno dei personaggi così da creare un conflitto e mandare stancamente avanti la trama. Le idee del duo in più di un caso fanno ridere con gusto, cioè lasciando un certo margine alla violenza contro personaggi e idee, prendono una parte, non sono innocui nè vogliono piacere necessariamente a tutti ma tutto sembra l'esatto contrario della messa in scena che riporta ogni stimolo nella gabbia della tranquillità.

Forse un giorno ci sveglieremo e leggeremo della scoperta dell'esistenza di un decalogo di regole per fare i film italiani girati senza voglia che si applicano regolarmente a queste produzioni. Un decalogo con accanto ad ogni regola motivazioni dogmatiche simili a quella famosa per la quale nelle commedie la fotografia deve essere chiara e naturalistica, perchè si deve capire tutto e non aggiungere grottesco o stilizzato a qualcosa di già macchiettistico. Darebbe un senso ad un buco nero che si allarga di anno in anno, spiegherebbe quello che rimane un mistero insondabile: come mai così tanti professionisti non abbiano nessuna voglia di fare qualcosa di meglio di quel che già fanno, perchè depongano le armi e si arrendano a fare i film senza personalità, perchè non lavorino nei meandri di un sistema che gli chiede prodotti brutti per inserire lo stesso qualcosa di ricercato come nel cinema si è sempre fatto.

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