[Roma 2013] I Corpi Estranei, la recensione

In concorso al Festival del Cinema di Roma, il dramma di Locatelli con Filippo Timi è un monumento all'inconsistenza narrativa...

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È buona regola, per qualsiasi narratore, di non indulgere a inutili barocchismi nel raccontare la storia che ha tra le mani, perché una buona opera ha bisogno di pochi, azzeccati elementi per potersi definire tale.

L'essenzialità è tuttavia un pregio di cui molti pseudo-narratori (di cui buona parte cineasti) si riempiono la bocca a sproposito, trincerandosi dietro la facciata del "less is more" per evitare l'accusa di inconsistenza. Duole dirlo, ma I Corpi Estranei di Mirko Locatelli, in corsa per il Marc'Aurelio d'Oro al Festival del Cinema di Roma, non fa eccezione.

La storia si racconta in breve (presumibilmente, nello stesso lasso di tempo che devono aver impiegato gli autori della sceneggiatura a metterla su carta): Antonio è un giovane padre di famiglia umbro, costretto dal tumore al cervello del suo bambino poco più che lattante a trascorrere alcuni giorni in una clinica milanese. Lontano dalla moglie e dai due figli più grandi, costretto a convivere con parenti di malati nelle sue medesime condizioni, Antonio ciondola tra la clinica e il mercato dove si guadagna qualche soldo per arrotondare il dispendioso soggiorno.

Le ragioni che possono aver spinto i selezionatori a inserire questi 98 minuti di afona pretenziosità tra i film in concorso rimangono avvolte dal mistero più fitto. Diretto con una superficialità colposa e costruito su un protagonista farcito di stereotipi drammatici (è povero in canna, ha un becero odio xenofobo per gli islamici e suo figlio ha il cancro) che restano larvali e sterili, non contribuendo a spostare di un millimetro la storia dal punto di partenza, I corpi estranei è un insipido percorso dal punto A al punto A, l'apoteosi incolore dell'immobilità filmica, l'antitesi del senso profondo e ancestrale del cinema (dal greco kìnema, movimento).

A nulla valgono gli sforzi di un irascibile Filippo Timi, padre molto credibile fiondato in un contesto di irritante piattezza. Le bestemmie nel suo dialetto natale non sono certo un defibrillatore abbastanza potente per il cadavere cinematografico di cui è unico, solo (vorremmo poter dire solitario) protagonista.

La storia si chiude di colpo, lasciando lo spettatore con la bocca così asciutta da dover correre a reintegrare i liquidi con qualunque sostanza (fortuna che, in questi giorni di Festival, la pioggia non manca). Locatelli non concede nemmeno un contentino finale al pubblico meno esigente, restando arroccato fino all'ultimo fotogramma nella sua torre di snobismo fatta di mattoni di niente.

Il minimalismo non è peccato. La sciatteria, sì.

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