[Roma 2013] Dallas Buyers Club, la recensione

Fatto per condurre il proprio protagonista alla stagione degli Oscar e forse troppo occupato a guardarlo, Dallas Buyers Club rielabora la battaglia dei primi malati di AIDS per avere delle cure tempestive...

Critico e giornalista cinematografico


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La vera storia dell'AZT e dei buyers club, cioè dei punti vendita in cui venivano distribuiti farmaci per rallentare l'effetto del virus HIV che il governo americano non aveva approvato (tramite l'organo apposito, l'FDA) è vista attraverso Ron Woodroof, personaggio scomodo, rude, bastardo e dal cuore profondamente nero, costretto dagli eventi a superare ritrosie, pregiudizi e ottusità mentali.

E' la storia sentimentale di come gli americani fecero fronte all'incapacità del governo (e della legge) di combattere il rapido diffondersi del virus HIV e provvedere alla necessità dei malati di poter usufruire di cure nuove.

L'idea furba e molto ruffiana del film di Jean-Marc Vallée è di fondere il racconto di un grandissima purificazione umana attraverso il dolore e la sofferenza con il potenziale di soddisfazione dello spettatore che il cinema di conquista di diritti civili porta con sè. Farcela come uomo, farcela come società, contro la malattia (fino ad un certo punto ovviamente) e contro l'ingiustizia.

Nel fare ciò il film trova il fisico per l'occasione smagrito e perfetto di Matthew McCounaghey, bifolco tutto d'un pezzo che preferisce morire con gli stivali indosso piuttosto che affidarsi ai medici e combatte la sua lotta personale contro l'HIV diventando un esperto di farmacologia e contrabbando. McCounaghey ha un film disegnato intorno a sè, mentre il film ha un attore che necessita di un veicolo per completare la sua trasformazione da belloccio a vero protagonista del mondo della recitazione di Hollywood.

Ed è proprio perdendosi intorno al suo protagonista (bravo nel senso più canonico e meno innovativo del termine), regalandogli un cumulo esagerato di scene madri e di conseguenza trascurando gli altri personaggi (dall'omosessuale tossico di Jared Leto la cui discesa è tanto subitanea quanto priva di empatia fino al medico di Jennifer Garner, privo di qualsiasi reale economia nella trama) che il film perde le chance di operare una vera grande parabola umana, quel racconto di passione e purificazione condotto come la vita di un santo (che dal massimo del peccato ascende, attraverso una personale passione, alla salvazione propria e altrui) che vorrebbe essere e rimane invece un buon film, ben interpretato, utile forse solo al suo protagonista.

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