[Roma 2012] The Motel Life, la recensione

Il film del Concorso più applaudito in sala. La storia di due fratelli, un incidente d'auto, fughe fisiche in macchina e metaforiche con la fantasia. Compatto e solido, ma niente di eccezionale...

Condividi

Fratelli Skolimowski in Concorso (il bruttino assai Ixjana), fratelli Polsky in Concorso.

The Motel Life è una delle pellicole più applaudite di tutte le proiezioni stampa di questa VII edizione del Festival di Roma e arriva dopo il buon gradimento della farsa sull'andropausa diretta da Roman Coppola. Gli Stati Uniti d'America, con Larry Clark, Coppola Junior e i Polsky Brothers, sicuramente non andranno via a bocca asciutta dal Festival. A meno che il presidente di Giuria Jeff Nichols non si senta in imbarazzo per la sua provenienza Usa.

Siamo dalle parti del cinema classico white trash in cui grandi star vengono chiamate a interpretare ruoli di squallidi nordamericani wasp dalle vite assai grame. Pensate a The Wrestler. Qui assistiamo alle avventure mediocri di due fratelli, Frank (Emile Hirsch) e Jerry Lee (Stephen Dorff), reduci da un'infanzia di grande solitudine e ora coinvolti in un incidente d'auto che genera interiormente lancinanti sensi di colpa (Jerry Lee) ed esteriormente l'organizzazione di una fuga per nascondersi in scalcinati motel (Frank).

Jerry Lee è pure senza una gamba. Frank racconta delle storie fantastiche in cui può accadere di tutto (pirati in bikini, sesso più tiro al piccione, etc.). Sono i momenti più belli del film perché le animazioni vecchio stile disegnate a mano di Mike Smith prendono il sopravvento e si ottengono bellissime contrapposizioni tra i voli pindarici della fantasia di Frank e la tristezza della realtà in cui si trascinano i due. Avevamo visto la stessa identica idea in The Dangerous Lives of Altar Boys dove addirittura Todd McFarlane aveva lavorato ai cartoon.

Frank è anche tormentato dal ricordo di una donna che l'ha ferito e che incontrerà nuovamente. La intepreta Dakota Fanning. Ormai è ufficiale: sua sorella Elle l'ha nettamente superata. Il viso della povera Dakota, sempre più scucchiona, è diventato senza mordente. Sempre crudele la crescita delle star bambine.

Il film è basico, già visto mille volte, semplice-semplice, senza ammorbanti vezzi autoriali alla Jacques Doillon o Kira Muratova. La tipica concretezza yankee. E' forse per questo che, stremati dai due citati sadici registi di ieri, si è tributato stamattina l'applausone ai Polsky Bros senza che abbiano fatto niente di che.

Jerry Lee è il solito Stephen Dorff dopo rivalutazione post-Somewhere. Buono ma non eccezionale. Più un prodotto di markenting autoriale che altro. Frank è un Emile Hirsch che strabuzza gli occhi meno del solito e per una volta non interpreta un personaggio completamente cretino. Qui lo è solo un po'.

Non male per gli appassionati di Willie Nelson, Raymond Carver ed Edward Hopper. Ma l'entusiasmo critico in proiezione stampa è probabilmente frutto di stanchezza o solo ed esclusivamente merito dell'irritazione provocata dagli altri registi del Concorso.

Continua a leggere su BadTaste