[Roma 2012] Il volto di un'altra, la recensione
Tra Wilder, Hitchcock e un pizzico di Von Trier, Pappi Corsicato crea un'opera imperfetta ma graffiante...
“Nel futuro, ognuno sarà famoso per 15 minuti.” Il celeberrimo aforisma di Andy Warhol potrebbe essere la tagline ideale per il nuovo film di Pappi Corsicato, Il volto di un’altra, presentato stamattina alla stampa nell’ambito del Festival del Cinema di Roma. Dedicato alla memoria di Andrea Crisanti, faro della scenografia italiana recentemente scomparso e che ha curato l’allestimento del film in questione, Il volto di un’altra è in corsa per il concorso internazionale ed è, dopo Alì ha gli occhi azzurri di Claudio Giovannesi, la seconda pellicola italiana potenzialmente vincitrice del Marc’Aurelio d’Oro.
Siamo felici di poter finalmente dire che Laura Chiatti ha trovato un ruolo calzante e in grado di mettere in risalto le sue (finora non valorizzate) doti interpretative. La vanitosa Bella è un personaggio negativo che diverte e affascina, per cui si parteggia a prescindere dalla legittimità o meno delle sue rivendicazioni. Buona prova anche di Alessandro Preziosi nel ruolo del marito René, che sapientemente alterna il ruolo di vittima e carnefice durante lo snodarsi della vicenda.
In conclusione, Il volto di un’altra convince, al di là di alcuni cali di ritmo qua e là e dell’inutilità della trama secondaria legata all’incombente arrivo di un asteroide, pronto a schiantarsi sulla Terra: questa spruzzata di Von Trier non disturba, certo, ma finisce per distrarre l’attenzione dello spettatore. Il graffio alla spettacolarizzazione ossessiva del dolore e allo strenuo, spietato inseguimento della popolarità da parte di chiunque, dalla star televisiva fino ad arrivare alla famigliola qualunque, è ben mirato e colpisce perfettamente il bersaglio, in un gioco delle parti pirandelliano in cui nessuno è chi sembra essere. Emblematica, in questo senso, l’avida suora interpretata da Iaia Forte, da sempre attrice feticcio di Corsicato.
E agli intellettuali snob che storceranno il naso per la scena finale volutamente repellente nella clinica, varrebbe la pena ricordare le entusiastiche ovazioni che continuano a ricevere film come Salò o Le 120 Giornate di Sodoma e La Grande Abbuffata, dove il comune buon gusto è stato vilipeso e violentato senza pietà in nome del sacrosanto impatto psicologico sul pubblico e, si dice, di un più ampio ed alto messaggio metaforico. Viva la faccia di un film come questo, che nel desolante panorama del cinema italiano ha il coraggio di osare con uno stile sopra le righe e lontano dall'insopportabile tediosità dei drammucoli triti e ritriti (come La scoperta dell'alba di Susanna Nicchiarelli, visto pochi giorni fa al Festival). Non sarà perfetto, ma meglio sbagliare nel tentativo di differenziarsi, piuttosto che fallire appiattendosi sulla banalità più stantìa.