[Roma 2012] Goltzius and the Pelican Company, la recensione

Peter Greenaway torna all’attacco in questo Festival di Roma con una parabola visionaria sospesa tra arte, sesso e religione...

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“La libertà di parola è un lusso”, dice l’incisore Hendrick Goltzius mentre l’epilogo della sua tormentata storia si fa sempre più prossimo. Non siamo nel bel mezzo di una rivoluzione, no. Siamo nientemeno che in Francia, alla fine del Cinquecento, nel bel mezzo dell’ultima fatica cinematografica di Peter Greenaway, Goltzius and the Pelican Company. Più precisamente, alla corte del Margravio d’Alsazia, mecenate delle arti che prende a cuore le sorti di Goltzius e stipula con lui un contratto: finanzierà stampa e pubblicazione di due testi contenenti sue incisioni, l’Antico Testamento e le Metamorfosi di Ovidio, a patto che la Compagnia del Pellicano, di cui l’eclettico pittore è impresario, lo intrattenga per sei sere, ognuna delle quali vedrà messo in scena un episodio dell’Antico Testamento a sfondo erotico. Un patto vantaggioso per entrambe le parti, o almeno così sembra inizialmente: ben presto, però, Goltzius e la sua compagnia si troveranno trascinati in un’allucinata spirale di sesso e sangue, da cui sarà sempre più difficile uscire incolumi.

Goltzius and the Pelican Company è il secondo capitolo di una trilogia dedicata dal regista inglese ai grandi pittori olandesi, apertasi con il meraviglioso Nightwatching (2007), incentrato su Rembrandt. Il ciclo si concluderà nel 2016 con un terzo capitolo dedicato a Hieronymus Bosch. Premettiamo: chi non ha un minimo di dimestichezza col cinema di Greenaway, rischia di restare quantomeno perplesso da questa mescolanza di tradizione teatrale e sperimentalismi visivi da videoarte di cui il film è pregno. Il regista britannico non è mai stato un narratore realista, a partire da Le cadute, suo lungometraggio d’esordio datato 1980 e composto da 92 episodi legati tra loro da un misterioso incidente. In Goltzius and the Pelican Company recupera tematiche a lui care, come il delicato rapporto tra finzione e realtà che, ad un certo punto, viene meno scatenando conseguenze drammatiche e cruente; già l’aveva mostrato in uno dei suoi film più ermetici, Il bambino di Mâcon, ambientato quasi nello stesso periodo storico. Inoltre, snoda il racconto grazie al classico topos del narratore onnisciente, in questo caso Goltzius stesso, che non manca di intervallare l’intreccio principale con brevi excursus sulla storia dell’arte.

La profondità di messaggio del film è straordinaria, veicolata da dialoghi sofisticati ma straordinariamente brillanti, che lo rendono una gigantesca metafora perfettamente leggibile e declinabile agli ambiti più vari, dal cinema alla religione passando per la politica e la morale. La messa in scena di episodi scottanti tratti dalla Bibbia sottolinea, da un lato, l’incapacità da parte della corte del Margravio di distaccarsi da un’interpretazione meramente letterale del testo sacro: dall’altra, antiteticamente ma in modo perfettamente parallelo, sottolinea l’incredibile carica violenta e animale dei testi stessi. L’effetto sullo spettatore è quello di un messaggio distillato, di cui ad ogni scena viene rilasciata una goccia, una sorta di mosaico di tessere che creano un’immagine finale compiuta di cui, durante la visione, avevamo già intuito l’efficacia e la potenza.

Greenaway è sempre stato acutissimo nella scelta dei propri attori: vale la pena ricordare il Rembrandt di Martin Freeman in Nightwatching, una delle interpretazioni più intense degli ultimi anni. Qui ancora una volta conferma questa capacità, riunendo attori poco noti (eccezion fatta per Fahrid Murray Abraham, che interpreta il laido Margravio) ma perfetti nell’evocare suggestioni pittoriche legate all’epoca in cui si svolgono i fatti. Sembrano appena usciti dalla tela di un fiammingo, i personaggi che si avvicendano sullo schermo nella scenografia messa su in una fabbrica dismessa. Sì, proprio così: il Cinquecento è ricostruito all’interno di una struttura fatiscente, dando vita a un’estetica nuova ma coerente, integrata talvolta addirittura con l’ausilio di grafica 3D. Greenaway non ha paura di niente sul fronte visivo, ha un gusto superbo e ne è consapevole; forte di questo, osa l’inosabile e gioca con sovraimpressioni, filtri e chi più ne ha più ne metta, senza sbavare neppure per un secondo. E l’esposizione ossessiva del corpo nudo maschile e femminile non è mai contaminata di morbosa pruriginosità, neppure nelle numerose scene di sesso che costellano il film, elevando ogni movimento a eco di un’arte pittorica, quella di Goltzius, che fece della sensualità più esplicita uno strumento per arrivare al sublime.

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