[Roma 2012] E la chiamano estate, la recensione
Il terzo film italiano in Concorso è quello più fischiato e preso in giro alla proiezione stampa. Seconda debacle di seguito per Paolo Franchi a un Festival che conta...
Terzo film italiano in Concorso e arrivano i buu e i fischi della platea di critici e giornalisti. E la chiamano estate di Paolo Franchi sceglie la via del titolo con canzone pop riconoscibile (moda italiana dell'ultimo decennio da Ricordati di me di Muccino a Notte prima degli esami, Mio fratello è figlio unico, Figli delle stelle, Te lo leggo negli occhi e un'altra ventina) ma batte le strade del cinema d'autore più impervio, non commerciale e fragile. E infatti, vuoi la stanchezza, vuoi quel fantozziano spirito di infantile rivalsa che ogni tanto subentra tra noi analisti a metà Festival, ma ecco che verso la fine del film sono arrivati commenti salaci, applausi derisori, versi e mugolii di scherno. Ed era la proiezione delle ore 11. Chissà cosa sarebbe successo a quella delle 9 del mattino.
Il film racconta mischiando piani temporali, veglia e sonno, realtà e finzione, la difficile storia d'amore tra Dino (Jean-Marc Barr) e Anna (Isabella Ferrari).
Tra un atto sessuale e l'altro (ma mai con Anna), Dino contatta gli ex della sua fidanzata spingendoli a fare l'amore con lei (“Una scopata non si nega a nessuno. Poi con la tua ex! Dai!” a questa battuta stava venendo giù la sala; infatti uno degli ex di Anna lo prende a schiaffi) mentre sullo schermo scorrono diapositive alla Conoscenza carnale commentate in voice over da vari personaggi in un “dove” spazio temporale a posteriori rispetto a una tragedia. Poi si capirà relativa a chi.
Isabella Ferrari recita quasi sempre mezza nuda, Jean Marc Barr ha un'espressione da ebete per tutta la pellicola (sembra un giovane Tommy Lee Jones appena lobotomizzato) e purtroppo i nudi sono quanto di più gratuito e volgare si possa vedere al cinema. Il sospetto forte è che siano telecomandati per quanto risultino invadenti e inutili.
Il film è molto brutto. A renderlo quasi inguardabile è la prosopopea e la seriosità con cui Franchi affronta il tema. Il personaggio di Dino, e la recitazione atarassica di Barr, sono l'elemento che più fa sghignazzare.
E poi l'incoscienza exploitation. Ma come si può essere così ingenui da realizzare un film che sembra il fratello scemo di Shame?
Anche il cinema d'autore deve vivere nel mondo e scegliere un argomento del genere, a un anno di distanza da quel film, non sembra particolarmente lungimirante in ottica cinematografica. La produttrice Nicoletta Mantovani avrebbe dovuto pensarci. Oppure si è voluto cavalacare un successo in piena filosofia trucida exploitation (traduzione: sfruttamento di mode o successi altrui) che però si discosta molto dalla supposta autonomia espressiva, e purezza, congenita al cinema d'autore?
E' chiaro che dai fischi ci si può e ci si deve riprendere. Placido non si è certo suicidato dopo terrificanti debacle veneziane ai tempi di Ovunque sei e Il grande sogno. Quello che preoccupa di più è la caduta libera di Paolo Franchi.
La spettatrice era un gran film e ora come ora sembra diretto da un 'altra creatura. Cosa è successo a quel bravo regista? In cosa si è trasformato? Ci sembra che il suo cinema stia diventando sempre più flaccido (come il pene fuggevolemente in primo piano del bravo-nonostante-tutto Filippo Nigro nel ruolo dello scambista velenoso), sempre più calcolato, sempre più ombelicale, sempre più brutto. Speriamo che ormai non sia troppo tardi.