[Roma 2012] Duzhan, la recensione

Il secondo film a sorpresa del Concorso è l'ultimo lavoro di Johnny To, un tempo autore di nicchia ora diventato ospite fisso dei Festival. Una bella delusione...

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Stanno accadendo due cose importanti a questo ultimo Festival di Roma.

Istituzionalizzati al massimo perché presenti in Concorso anche con il compito di salvatori della patria (e di Marco Müller), Takashi Miike e Johnny To hanno definitivamente fatto il salto del fosso: ormai sono il cinema di papà, sono registi di sistema festivaliero e non possono più essere trattati (soprattutto dalla generazione di critici ormai quasi quarantenni cui appartiene lo scrivente) come autori di nicchia da esaltare per il solo fatto di esistere.

Questa linea massimalista poteva avere un senso un tempo. Ora non più. Le cose cambiano, come sosteneva David Mamet.

E così, mentre Miike non è riuscito a far partire di slancio il Concorso con il suo Lessons of Evil (che ad oggi è però uno dei film migliori della rassegna competitiva più importante), To non è riuscito (a parer nostro) a infiammare nemmeno un po' un Festival arrivato quasi alla fine. Il suo ultimo Duzhan è un poliziesco che sembra un brutto documentario (o lunga docu-fiction televisiva) privo totalmente di quegli slanci estetici del passato. Anche recente. Pensiamo al divertente ed elegante Vendicami. E' il primo film cinese che affronta a viso aperto il traffico di droga e in 107 minuti che sembrano non finire mai, To racconta la storia del poliziotto Lei (un capitano di polizia guitto che eccelle nel trasformismo) e del criminale Ming. I due si incontrano all'inizio della pellicola e tutta la tensione dovrebbe risiedere nel rapporto di forzata collaborazione e possibile doppiogioco di Ming. Ma diciamo che ci siamo divertiti molto di più con la strana coppia killer professionista e poliziotto perbene di Bullet to the Head di Walter Hill. La chimica tra i due non scatta mai (nella storia tra i personaggi e nel film tra gli attori) e prima di vedere To lanciarsi in una sparatoria terribilmente cruenta, ma nemmeno troppo bella, dobbiamo aspettare 100 minuti di intercettazioni e inseguimenti convenzionali e noiosi.

Anche il buon Johnny può sbagliare. Diventare un grande regista significa assumersi la responsabilità di non essere più la mascotte di una critica militante costretta d'ora in poi ad essere meno indulgente.

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