[Roma 2012] Alì ha gli occhi azzurri, la recensione

Il primo film italiano in Concorso parte bene, prosegue benino ma finisce malissimo. Dopo il documentario Fratelli d'Italia, Giovannesi continua a raccontare i nuovi italiani...

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Dopo il miglior film italiano sul rapporto conflittuale tra la generazione dei precari e la meglio gioventù (La casa sulle nuvole) e dopo un rude documentario sui nuovi italiani delle periferie (Fratelli d'Italia), il bravo Claudio Giovannesi arriva come primo italiano in Concorso alla VII edizione del Festival di Roma.
Daniele Vicari style: come il regista di Diaz trasse la sua prima fiction Velocità massima dal documentario Uomini e lupi, così Giovannesi firma la seconda regia fiction Alì ha gli occhi azzurri partendo proprio dal doc Fratelli d'Italia.

All'origine del titolo un brano profetico tratto da Profezia di Pier Paolo Pasolini in cui si immagina che dei misteriosi Alì dagli occhi azzurri mettaranno a ferro e fuoco Roma.

Il film racconta una settimana nella vita degli amici Stefano e Nader (è lui il nostro Alì, visto che insiste a mettersi le lenti azzurre per camuffare la sua etnia e sembrare più occidentale) in quel di Ostia, litorale romano. La macchina da presa “garronianamente” è addosso ai personaggi restringendo molto il campo visivo (non si vede quasi mai nient'altro se non corpi e facce) e producendosi in lunghi piani sequenza con panoramiche a schiaffo.

Stefano è un italiano figlio di un padre criminale. Nader è di origini egiziane ma è cresciuto a Roma per cui è l'ormai classico straniero di seconda generazione, in questo caso dalla parlata romanesca, che sempre più spesso vediamo nel cinema italiano (Good Morning Aman, Fratelli d'Italia, Et in terra pax, La scuola è finita, La nostra vita, Saimir).

Hanno 16 anni e si dividono tra piccola criminalità, amorazzi, l'Istituto tecnico alberghiero e rapporti difficili con i genitori.

Giovannesi divide la storia in due ma avrebbe dovuto interessarsi decisamente di più ad Alì, contraddittorio nel voler essere occidentale per certi atteggiamenti (le lenti azzurre, l'amore contestato dai genitori per una dolce ostiense, il non rispetto del Ramadan, la scarsa frequentazione della moschea) e ai livelli dei fondamentalisti islamici per altri (la sorella non può avere alcun tipo di rapporto con Stefano; peggio che Tony Montana in Scarface). Era cinematograficamente più importante dare ad Alì tutta la scena, visto che come spettatori siamo molto più incuriositi da lui, in quanto nuovo italiano, che non dal già visto e rivisto Stefano.

Perché Giovannesi non l'ha fatto? Forse perché voleva prenderli come simboli di due culture molto meno amalgamabili di quanto si possa immaginare in un'ottica progressista (è il senso del finale) ma forse anche perché Nader Sarhan non è all'altezza del ruolo difficile e problematico che il film gli affida. Ben più bravo Stefano Rabatti alle prese con l'amico fondamentalmente ignaro degli sconquassi che inevitabilmente si verificheranno grazie al suo rapporto con l'esplosivo Nader. Come Pasolini insegna.

I giorni della settimana passano (didascalie scritte sia in italiano che in arabo), Nader e Stefano si mettono nei guai per via di una rissa con dei rumeni e tra un piccolo episodio e l'altro arrivano al finale che è anche una resa dei conti.

E qui il film crolla del tutto. Non solo perché non è chiaro di come Nader entri in possesso di un oggetto fondamentale per il climax ma soprattutto perché Giovannesi non abbia il coraggio di portare alle estreme conseguenze la profezia pasoliniana a differenza del Kassovitz de L'odio (film praticamente gemello di Alì ha gli occhi azzurri).

Il finale doveva essere più duro, più risolutivo e asciutto. Perché alzare costantemente la temperatura della pellicola per 96 minuti se poi si decide di spegnere il fuoco sotto la pentola negli ultimi 3?

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